Ciascuno di noi festeggia, più o meno intensamente, i propri compleanni e le proprie ricorrenze, non quelle dei lontani parenti. La Repubblica italiana, invece, festeggia soprattutto le ricorrenze religiose, di “parenti” spesso invadenti e non da tutti graditi.

Il Cerimoniale di Stato distingue i “giorni festivi”, dalle “solennità civili” e dalle “giornate celebrative” (per esempio il 7 gennaio Giornata nazionale della Bandiera). I “giorni festivi” laici sono solo il 25 aprile (Liberazione dal nazifascismo), il 1° maggio (Festa del lavoro), il 2 giugno (Festa della Repubblica). Il 4 novembre (Festa dell’Unità nazionale) fa parte delle “solennità civili”, era un giorno festivo ma nel 1977 venne declassato, insieme al 2 giugno.

Il 2 giugno è tornato “giorno festivo”. Forse anche il 4 novembre potrebbe diventare la “Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate“: scelta apprezzabile perché abbiamo bisogno di feste laiche. Ci piacerebbe ripristinare anche il 20 settembre (Anniversario di Porta Pia, festa abolita nel 1930 dai fascisti). Tra le tante promesse dei partiti di destra c’era anche il ripristino della festività del 4 novembre, ma per usarlo in contrapposizione a altre feste che loro considerano “divisive” (il 25 aprile, il 1° maggio, il 2 giugno). Poi però hanno deciso di lasciarlo “solennità civile” per ragioni economiche.

I pacifisti “relativi” – diversamente da quelli “assoluti” – non hanno problemi a celebrare le Forze Armate della Repubblica che, come recita la Costituzione, “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Anche Bergoglio, tra una dichiarazione “pacifista” e un’autoproposizione come mediatore, tiene ferma la dottrina della chiesa che ammette la guerra giusta e il commercio delle armi, e si tiene i cappellani militari pagati dallo Stato (poco) laico.

La celebrazione condivisa delle festività della Repubblica è ostacolata non solo dalle strumentalizzazioni di Meloni o Salvini, ma da radici storiche profonde e persistenti. Basti ricordare le note di Gramsci sull’elitismo e sul sovversivismo delle classi dominanti (che alimenta specularmente anche quello dei dominati), su un Risorgimento con scarsa partecipazione popolare (e senza riforma agraria), sul ritardo della formazione dello Stato nazionale (anche per la presenza dello Stato pontificio), su una industrializzazione tardiva che ha generato una classe dirigente poco responsabile e lungimirante, antistatalista (tranne quando deve raccogliere prebende), basata sul “particulare” guicciardiniano e sul familismo amorale, localista e corporativa.

Anche il settore militare di questa classe dirigente si è rivelato poco nazionale e molto “particulare”. Oggi anche autorevoli generali delle nostre Forze Armate riconoscono che nel Risorgimento abbiamo soprattutto approfittato delle vittorie degli alleati francesi o prussiani (le vittorie sul campo sono merito quasi solo del poco equipaggiato esercito popolare di Garibaldi), che i Savoia hanno fatto un uso “sudamericano” dei militari (vedi le medaglie a Bava Beccaris per avere cannoneggiato gli operai milanesi).

Mentre in altri Paesi, di fronte a una sconfitta, i comandanti militari si assumevano le loro responsabilità e si appellavano all’unità della nazione, nell’Italia di Caporetto i nostri generali hanno cercato di nascondere i loro errori accusando di viltà i soldati; l’8 settembre del 1943 comandanti irresponsabili e monarchia hanno lasciato le truppe allo sbando; e si potrebbe continuare a lungo, ma evitando di rappresentare le attuali Forze Armate come un covo di militaristi guerrafondai, perché c’è di tutto, come nel resto della società.

Celebrare le ricorrenze laiche della Repubblica, compresa la solennità civile del 4 novembre, serve proprio a rafforzare l’unità nazionale intorno ai valori della Costituzione.