Il 25 aprile è una data importante perché ci ricorda la liberazione dal fascismo, la conquista dei diritti civili, politici e sociali, sanciti nella Costituzione repubblicana. Non è solo la liberazione dal fascismo, è anche la liberazione per la democrazia pluralista basata sulla sovranità popolare, per quel progetto sociale elaborato dai padri e dalle madri costituenti.
Sarebbe riduttivo vedere in questa ricorrenza solo un’occasione per polemizzare con i nazional-populisti in stile talk show. Dobbiamo combattere ogni manifestazione di rigurgito fascista, ma usare il termine come un semplice epiteto contro gli avversari politici non aiuta l’antifascismo, anzi favorisce l’anti-antifascismo, un fenomeno diffuso in Italia dai tempi della guerra fredda. D’altronde, non mancano certo i motivi per criticare le posizioni dei Salvini e delle Meloni, ma se proprio vogliamo trovare analogie nella storia, loro esprimono oggi posizioni più simili a quelle della destra DC degli anni ‘50 che a quelle del regime fascista. I pericoli per i diritti e la democrazia non provengono solo da quella parte, ma da processi socio-economici ben più profondi e pervasivi, non sempre evidenti.
Grazie all’Illuminismo e alla rivoluzione francese siamo passati da sudditi a cittadini, dalla carità elargita dai potenti ai diritti garantiti dallo Stato-nazione. Non è stato un percorso lineare: la democrazia inizialmente era riservata ai possidenti maschi bianchi, poi la partecipazione si è progressivamente allargata, ci sono state regressioni con i regimi fascisti, alla fine della seconda guerra mondiale abbiamo finalmente conquistato la democrazia costituzionale e il suffragio universale. Il 25 aprile, come già detto, indica – insieme al rifiuto del fascismo – il fondamento egualitario della Costituzione repubblicana. Nei “magnifici trent’anni”, dal 1945 al 1975 circa, si è affermato il welfare state e, nonostante limiti e ritardi, abbiamo assistito a una riduzione delle disuguaglianze senza precedenti nella storia dell’umanità. C’erano gravi problemi ma anche la fiducia nel futuro, basata su diverse ideologie, di tipo liberale e socialista, accomunate dal paradigma del perseguimento dell’equilibrio tra equità ed efficienza.
Alla fine di questo periodo vari movimenti (femminista, per le libertà sessuali, ecc.) hanno specificato e sostanziato i diritti, evidenziando limiti e contraddizioni presenti nell’applicazione dei principi costituzionali. Ma c’è stato anche un cambio di paradigma: l’equità è stata contrapposta all’efficienza, le disuguaglianze hanno ricominciato a crescere, i movimenti si sono frammentati in “monotematiche”, senza più una concezione unitaria di progresso, senza una visione del futuro, senza più mettere in discussione il sistema dominante, spesso con un’impostazione orientata non a cambiare ma a “salvare”, a preservare. Il postmodernismo ha svalutato il lavoro e la scienza e ha esaltato il consumo immediato, senza passato né futuro. Il pensiero debole e postmoderno ha favorito l’egemonia del neoliberismo e un aumento drammatico delle disuguaglianze che hanno minato la stessa democrazia. Come ciò sia avvenuto è questione complessa che possiamo solo accennare schematicamente.
Le sfere della politica, dell’economia e della cultura si sono – soprattutto dagli anni ‘70 – progressivamente separate. Il potere politico ha continuato a fare capo agli Stati-nazione (per alcuni aspetti ad aggregazioni macroregionali come l’UE) che però sono stati indeboliti e condizionati, da un lato da un’economia globale, che grazie alla mobilità dei capitali è uscita dal raggio di controllo degli Stati e si è presentata come “tecnica oggettiva” (pensiero unico, privo di alternative, TINA); dall’altro dalla scomposizione in culture locali e settoriali identitariste, chiuse, arroccate (ghetti multiculturalisti, federalismi secessionisti, regionalismi differenziati, cacicchismi, specialismi incomunicanti, baronie, corporazioni, ecc.). Si può indicare questo processo con il termine glocalismo, ed è unitario come una moneta che ha due facce: quella della globalizzazione che avvantaggia alcuni e quella dei localismi in cui sono confinati i lavoratori (tranne alcune “aristocrazie operaie”) e i ceti popolari, le periferie del mondo e delle global city.
La dottrina sociale cattolica, e il principio di sussidiarietà che ne è alla base, trova in questa situazione un terreno fertile. La chiesa cattolica – glocalista da sempre – è contro lo Stato-nazione (lo definisce “artificiale” pur chiedendogli sussidi), considera “naturali” le famiglie e le comunità, si presenta come “universale” (sia pure limitatamente al gregge dei fedeli attuali e potenziali), quindi è nello stesso tempo cosmopolitista e comunitarista (comunque antistatalista). Il suo modello resta l’ordine teocratico (come il Sacro Romano Impero, 800 – 1806, e lo Stato Pontificio, 751 – 1870), principi universali che legittimano i diversi poteri e privilegi delle e nelle comunità.
L’élite dominante ha promosso il nichilismo postmodernista (proclamando la fine delle ideologie, quelle altrui) in funzione antisocialista, determinandone la sconfitta, ma ora coglie i pericoli del nichilismo per la coesione sociale: proprio perché il mercato globale è amorale, serve un principio morale per governare i nuovi sudditi depoliticizzati e “delocalizzati” (spaesati). Non a caso gli “atei devoti” delle élite riscoprono il giusnaturalismo e apprezzano la chiesa cattolica che offre in forme nuova (e con la straordinaria capacità comunicativa di Bergoglio) la sua tradizionale funzione di controllo sociale e di attenuazione delle contraddizioni più aspre tramite la carità (al posto della solidarietà, cioè della lotta comune per l’effettività dei diritti). Anzi, ormai la chiesa punta a coprire lo spazio escatologico (la speranza per il futuro) lasciato vuoto dalla crisi del socialismo, pretendendo di essere riconosciuta pubblicamente come autorità morale e rinnovando la sua presenza nella scena politica. In questo modo viene messa in discussione la laicità dello Stato (quella vera, basata sull’etsi deus non daretur) e si assiste a una convergenza tra neoliberismo compassionevole, dottrina sociale cattolica e federalismo leghista.
Il trilemma di Rodrik riassume bene questa situazione: “La democrazia è compatibile con la sovranità nazionale solo se mettiamo limiti alla globalizzazione. Se spingiamo sulla globalizzazione e manteniamo lo Stato-nazione, dobbiamo rinunciare alla democrazia. E se vogliamo la democrazia insieme con la globalizzazione, dobbiamo accantonare lo Stato-nazione e impegnarci per una maggiore governance internazionale” (Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente). La propensione a una maggiore governance internazionale (alla globalizzazione dei diritti) è un nobile progetto, perseguito anche dai no-global diventati new-global, “glocalisti” alla ricerca di una illusoria terza via tra l’aridità economicista del globalismo neoliberista e l’identitarismo comunitarista delle piccole patrie.
Ma i diritti vivono solo nella lotta solidale per renderli effettivi, nel conflitto tra diversi interessi presupposto e regolato nella Costituzione; oggi le istituzioni dotate di potere reale sono ancora e soprattutto gli Stati nazionali (in parte anche l’UE e gli enti locali). L’ONU, peraltro indebolito negli ultimi decenni proprio dalla globalizzazione, ha bisogno del recepimento degli Stati per rendere effettive le sue indicazioni. Quindi questi “diritti naturali”, senza controparte istituzionale e senza rappresentanza dei diversi interessi, ridotti a propensione etica, a un generico umanismo, ci spingono a tornare a una condizione premoderna, basata sulla beneficenza del filantro-capitalismo (che elude le tasse) e delle opere pie (che ricevono sussidi pubblici). La deformazione semantica del termine diritti (analogamente del termine solidarietà, ridotto a generosità) nasconde la carità, la riduzione del cittadino a suddito, la riduzione della democrazia a procedura elettorale, dello Stato-nazione a “polizia locale”. L’uomo forte di oggi non è il duce militare (anche perché non c’è nessuno disposto a morire per la patria), ma il tecnocrate che da un lato dice There Is No Alternative, dall’altro frammenta e poi “garantisce” che i frammenti possano continuare a occuparsi (solo) del loro particulare.
Questi processi profondi minano la nostra democrazia costituzionale, in modo ben più grave e profondo di quanto possano fare le sgradevoli dichiarazioni del Salvini di turno. La lotta per la democrazia si basa sulla memoria, sul riconoscimento delle nostre radici politiche e culturali antifasciste, e anche sull’attualizzazione – teorica e pratica – della lotta per la libertà e i diritti. Per difendere oggi la democrazia e i diritti, il 25 aprile deve essere ancora considerato un giorno di lotta, non una semplice ricorrenza, perché la sovranità appartiene al popolo, ma se non la esercita la perde.