Religioni a bassa intensità: supereroi e postvampiri

Le tante varianti del mito di Prometeo mostrano, già dall’antichità, l’ambivalenza di desideri e timori per la superbia (hybris) dell’umanità che vuole appropriarsi della natura, tra la razionalità del progresso e la paura superstiziosa, e l’ambivalenza di narrazioni che consolano o problematizzano.
I cristiani hanno poi proposto una “razionalità” subordinata: si può fare (quasi) tutto purché “autorizzati” da dio/padre/chiesa (mons. Angelo Scola al meeting di CL del 1998 ha detto: “Prometeo sfida Zeus per compassione degli uomini; il Risorto obbedisce al Padre per salvarli”).
Con il Rinascimento e l’Illuminismo la razionalità scientifica ha preso forma e ha prevalso sulla teologia, ma non ha eliminato del tutto le paure irrazionali.
Anzi, con la seconda rivoluzione industriale di fine ‘800, i “mostri” hanno ri-occupato uno spazio importante nell’immaginario collettivo, rappresentando l’altra faccia della modernità.
Anche negli ultimi decenni (grazie al pensiero debole e postmoderno) c’è stato un nuovo rilancio, a conferma dell’ipotesi che nei periodi di crisi, quando il paradigma della razionalità scientifica si indebolisce, i mostri sembrano acquistare più vigore, insieme alle religioni.

Nell’800, riguardo all’ambivalenza progresso/natura, le figure mitologiche emblematiche sono state quelle di Dracula e della creatura di Frankenstein, personaggi e automi ambigui che, come i loro costruttori, oscillano tra il bene e il male. Vedi il successo del Faust di Goethe (1808) con il patto con Mefistofele; del Frankenstein, romanzo gotico di Mary Shelley (1817), espressione della paura per lo sviluppo tecnologico; poi del Dracula di Bram Stoker (1897).
A questa diade tecnica (ambivalenza della coppia progresso/natura) si affianca una diade politica (coppia progresso/consolazione).
“Il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti […] lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo [Dumas 1844] ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male.” (Antonio Gramsci, Q6 §134).
Questo “Superuomo è la molla necessaria per il buon funzionamento di un meccanismo consolatorio”, contrapposto alla catarsi del “romanzo problematico” (Umberto Eco, Il superuomo di massa, 1976).
Ovviamente, non si vuole condannare la letteratura d’evasione ma capirne le strutture sottostanti: dai mostri ed eroi antichi, al superuomo vendicatore dell’800, ai tantissimi supereroi attuali.

Alla fine dei “magnifici trent’anni” (1945-1975) si afferma il pensiero postmoderno che “reinterpreta” i personaggi mitologici dell’antichità classica e della modernità ottocentesca.
Non si intende “spiegare” questi miti complessi e ambivalenti sulla base di un criterio unitario o schematico; possiamo però indicare (con cautela) alcune caratteristiche che possono aiutarci a capire il successo del vampiro/zombie (del postvampiro) dopo il film La notte dei morti viventi (1968) di George Romero.
Il vampiro (o la mummia) è un non-morto, diversamente dal fantasma che sopravvive alla morte; lo zombie è un iper-morto massificato, anonimo come si suppone lo fosse in vita, che evoca la non-vita precaria (“iper-libera“ ma senza futuro).
Mentre il vampiro classico è ambivalente (spaventa e seduce con il suo fascino retrò), lo zombie non esprime intelligenza o valori, neanche perversi, ma un egualitarismo raccapricciante che si contrappone al ”protagonista”, come la massa dei concorrenti precarizzati in una società atomizzata, in bilico tra sentirsi supereroe o sfigato, come nel film Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti.
I caratteri del postmoderno confluiscono nei vari personaggi (licantropi, streghe, ecc.), in particolare nel postvampiro: l’assenza di passato e futuro porta all’eterna giovinezza, che non fa elaborare la morte ma la sospende nella non-morte; il relativismo superficiale e il reincanto portato dalla “rinascita” religiosa porta alla ricerca dell’”autenticità”, non nel sacro tradizionale né tantomeno nella razionalità scientifica, ma nelle espressioni religiose a bassa intensità; l’immediatezza del consumo porta non alla ribellione ma alla (ormai politicamente corretta e consolatoria) “trasgressione”, all’abbandono erotico (il sangue, il morso, il piacere/dolore); ecc.

Le diadi razionale/irrazionale, illuminismo/romanticismo, tecnica/spiritualità, impegno critico/fantasticheria consolatoria, assumono forme sempre nuove.
Il proliferare delle serie televisive (eredi dei romanzi d’appendice) impone un’esplosione combinatoria dei vari stilemi narrativi; però, in genere, i “mostri” e i “superuomini” dell’antichità e dell’800, oggi perdono il loro (residuo) carattere tragico e catartico, la loro “problematicità”, e vengono rapidamente “normalizzati” nelle stereotipate e consolatorie dinamiche relazionali tra “adolescenti” senza tempo, tra incroci di bande giovanili, che possono vestire indifferentemente i panni del vampiro, della strega, del licantropo, ecc.
Poche le eccezioni, tra cui Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood, distopia “problematica”, che parla di struttura sociale, non solo di dinamiche interpersonali.
Il nichilismo postmoderno con il suo relativismo assolutizzato indebolisce la struttura sociale e veicola il reincanto verso forme di religione fondamentaliste o a bassa intensità; anche gli atei devoti delle élite al potere promuovono le fantasticherie consolatorie e le istituzioni religiose in funzione di controllo sociale.