Una prospettiva atea nella partecipazione ai progetti per la stanza del silenzio – relazione di Giancarlo Straini

L’Unione Atei di Milano sostiene il progetto per la realizzazione di stanze del silenzio, lo so­stiene convintamente e per ragioni profonde.
Esaminiamo schematicamente ciò che ci differenzia per capire meglio ciò che ci unisce e ciò che può ulteriormente unirci.

LA SPIRITUALITÀ DEGLI ATEI

Definire la spiritualità atea non è semplice, innanzi tutto perché l’UAAR, in quanto non dog­matica (almeno come propensione), non esprime una dottrina e cerca di rappresentare atei e agnostici di vari orientamenti.
Comunque, è ampiamente diffusa la convinzione che esista una spiritualità atea, immanente e non trascendente, che non assegna primato e autonomia allo spirito ma lo considera un prodotto umano.
D’altra parte, essere materialisti e non idealisti non significa (necessariamente) essere nichilisti o materialoni (cioè meccanicisti, riduzionisti, deterministi, positivisti).
Per gli atei – quelli non materialoni – la realtà sociale non è un insieme di essenze, di sostanze stabili e fisse prodotte da un dio o da iperuraniche leggi naturali, ma è fatta di relazioni, come una tela (una struttura sociale), costituita da fili (da relazioni) che definiscono i nodi (gli individui). Relazioni che producono e sono contemporaneamente prodotte da habitus, schemi cognitivi e comportamentali.
Per il pensiero postmoderno non ci sarebbero più fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche), non ci sarebbero più mondi, ma solo immagini-del-mondo (Heidegger). Gli atei – quelli non postmoderni – vedono invece le relazioni come dotate di senso, non come semplici soggettivistiche interpretazioni.
Dice André Comte-Sponville nel suo testo Spiritualità per atei: «Che cos’è una spiritualità senza Dio? È una spiritualità dell’immanenza: una spiritualità della fedeltà [alla propria cultura] piuttosto che della fede, dell’amore piuttosto che della speranza, dell’eternità presente piuttosto che dell’avvenire, infine dell’azione e della meditazione piuttosto che dei riti o della preghiera».
Per me, la spiritualità atea è il nostro rapporto, dotato di senso, con l’indefinito; è lo stato d’animo e la sensibilità particolare, sospesa, irriducibile, non del tutto razionalizzabile, che si può provare di fronte a un’opera artistica, a emozioni non metabolizzate.
La spiritualità atea è l’espressione particolare, individuale, di ciò che a livello sociale si intende con il termine Zeitgeist (spirito del tempo) con cui si può sinteticamente interpretare e comprendere, il senso, la tendenza, il carattere di un periodo storico, anche quando si affrontano fenomeni complessi, non del tutto spiegabili razionalmente nei loro dettagli.
Dunque la spiritualità atea non è (non è necessariamente) l’effetto di un’irruzione del sacro nel pensiero laico, non è la dimostrazione di una mancanza (mancanza di dio, o dell’assoluto), come sostengono alcuni religiosi.
In altri termini esiste una spiritualità che si esprime in varie forme, che include le varie spiritualità religiose e le altrettanto varie spiritualità laiche. Ma, se le forme espressive sono diverse, i bisogni che le sottendono sono spesso simili e gli strumenti talvolta unificabili.

STRUMENTI INTERCULTURALI

Tra questi strumenti, c’è la stanza del silenzio, per fermarsi, pensare, raccogliersi, rigenerarsi, meditare o pregare, per elaborare la gioia e la sofferenza, per metabolizzare nuove emozioni, per sedimentare scelte difficili in nuovi contesti, per affrontare speranze e paure, per “accomodare” i propri schemi cognitivi.
La stanza del silenzio è anche uno strumento di inclusione, un servizio in favore dei migranti, ma sarebbe sbagliato intenderlo come risposta alla globalizzazione e alle migrazioni.
Infatti il prototipo è la “camera di meditazione” predisposta dal segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld per i dipendenti ONU a New York nel 1954, cioè nel periodo che gli economisti chiamano “i magnifici trent’anni”, dal 1945 al ‘75, il periodo che ha visto uno sviluppo economico-sociale e una riduzione delle disuguaglianze senza precedenti nella storia dell’umanità, il periodo che è iniziato con la conquista dei diritti politici, è proseguito con l’affermazione dei diritti sociali, ed è culminato con l’avvio della generalizzazione dei diritti civili.
Dunque è a partire dai “magnifici trent’anni“ che i luoghi del silenzio sono apparsi in ospedali, cimiteri, aeroporti, alberghi, università, carceri, di molti Paesi.
Da allora si è consolidata l’idea di una stanza per dialogare in silenzio, per incontrare l’altro, un luogo interculturale, un antidoto alle divisioni e ai muri dove chiunque possa esprimere libe­ramente il suo pensiero e la sua fede.
Non basta essere liberi dai divieti. Per essere effettivamente liberi serve anche un intervento pubblico per rimuovere gli ostacoli che la limitano, come ci insegna Amartya Sen e tanti altri, e come è scritto nella nostra Costituzione.
Non apprezziamo un multiculturalismo che concepisce la società come somma di ghetti, appartenenze rigide, incomunicanti con l’esterno e uniformanti all’interno, talvolta gestite da élite che preferiscono cristallizzare le differenze per consolidare il loro potere sulla comunità; un multiculturalismo che riduce l’intervento pubblico alla funzione di gestione del conflitto tra comunità, anche a scapito della sostanziale libertà dei singoli.
John Dewey, ci dice che la democrazia non è solo una procedura, non è solo una forma di governo; la democrazia è uno stile di vita, individuale e sociale, che richiede condivisione di valori, propensione allo scambio di esperienze, solidarietà e impegno egualitario. Dunque serve una educazione alla democrazia, ma nella consapevolezza (gramsciana) che ogni pedagogia è egemonia, e viceversa.
Il confronto tra culture, concezioni del mondo, stili di vita, ideologie diverse, per non diventare scontro settario, deve muoversi su un sentiero stretto tra omogeneizzazione forzata e formazione di ghetti, tra una anche inconsapevole riproposizione della superiorità dell’Occidente e un asociale “pluralismo” dell’indifferenza e dell’abbandono.
Dunque servono buone pratiche basate sulla laicità e il rispetto per l’altro, e strumenti che le favoriscano.

ISTITUZIONI LAICHE PER INCLUDERE

La stanza del silenzio non è solo un luogo accogliente, privo di riferimenti religiosi per rispettare i riti e le tradizioni proprie di ogni culto, da dove diramare l’assistenza religiosa per i pazienti non cattolici, o il servizio di assistenza morale non confessionale (AMNC) che l’UAAR fornisce a Torino e in altre città (e che vorremmo sviluppare anche a Milano).
La stanza del silenzio negli ospedali è anche terapeutica; ormai è ampiamente riconosciuto che la salute dipende anche dal benessere psicologico, relazionale, spirituale dell’individuo.
La semiotica Patrizia Violi, dell’Università di Bologna, nel suo libro Paesaggi della memoria: Il trauma, lo spazio, la storia, ci fa notare che «oggi, quando si parla di memoria, si parla sempre più spesso di memoria del trauma (Antze e Lambek 1996). Le commemorazioni riguardano quasi sempre eventi traumatici».
Anche le stanze del silenzio servono innanzi tutto all’elaborazione del trauma e alla sua memoria (alla sua ri-elaborazione), funzione importantissima ma non esclusiva; possono (devono) essere anche il luogo della gioia e della meditazione, non solo del dolore.
Ancora Patrizia Violi ci fa notare che «La memoria […] sembra intrattenere una relazione privilegiata con lo spazio, che diviene una delle modalità principali attraverso cui essa arriva a farsi discorso, a volte senza che ne siamo nemmeno consapevoli».
Infatti la stanza del silenzio, di cui c’è bisogno negli ospedali e in altre “istituzioni“ e luoghi aperti al pubblico, è molto di più di un semplice luogo: è un luogo che costruisce relazioni, è un hardware dotato di un suo software, è un progetto politico inclusivo, è una pedagogia (una pedagogia circolare), è educazione alla democrazia, al rispetto, al dialogo. È la pedagogia di Jerome Bruner e di tanti altri, che ci mostrano la compresenza di un pensiero paradigmatico, descrittivo, che usa proposizioni ben formulate su come le cose sono, e di un pensiero narrativo, normativo, su come le cose potrebbero o dovrebbero essere.
Dobbiamo essere consapevoli che questo “vuoto” della stanza del silenzio, cioè l’assenza di simboli e il silenzio, si fa discorso, a volte senza che ne siamo nemmeno consapevoli, questo vuoto è pienissimo di senso, ha un significato strutturante potentissimo. La stanza del silenzio ci parla forte e chiaro, per una buona causa.
Però è pur sempre uno strumento, per quanto strutturante, e funzionerà se verrà utilizzato. Cioè dipende da noi tutti – individui, associazioni e istituzioni – dalla nostra capacità di trasformare ciò che diciamo in questo convegno in relazioni, in pratiche quotidiane, in rapporti sociali.