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(la relazione sulla spiritualità atea è stata elaborata in un apposito gruppo di lavoro composto da attuali soci di ArciAtea che si occupano di Assistenza Spirituale Aconfessionale)
L’Unione Atei di Milano sostiene il progetto per la realizzazione di stanze del silenzio, lo sostiene convintamente e per ragioni profonde.
Esaminiamo schematicamente ciò che ci differenzia per capire meglio ciò che ci unisce e ciò che può ulteriormente unirci.
LA SPIRITUALITÀ DEGLI ATEI
Definire la spiritualità atea non è semplice, innanzi tutto perché l’UAAR, in quanto non dogmatica (almeno come propensione), non esprime una dottrina e cerca di rappresentare atei e agnostici di vari orientamenti.
Comunque, è ampiamente diffusa la convinzione che esista una spiritualità atea, immanente e non trascendente, che non assegna primato e autonomia allo spirito ma lo considera un prodotto umano.
D’altra parte, essere materialisti e non idealisti non significa (necessariamente) essere nichilisti o materialoni (cioè meccanicisti, riduzionisti, deterministi, positivisti).
Per gli atei – quelli non materialoni – la realtà sociale non è un insieme di essenze, di sostanze stabili e fisse prodotte da un dio o da iperuraniche leggi naturali, ma è fatta di relazioni, come una tela (una struttura sociale), costituita da fili (da relazioni) che definiscono i nodi (gli individui). Relazioni che producono e sono contemporaneamente prodotte da habitus, schemi cognitivi e comportamentali.
Per il pensiero postmoderno non ci sarebbero più fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche), non ci sarebbero più mondi, ma solo immagini-del-mondo (Heidegger). Gli atei – quelli non postmoderni – vedono invece le relazioni come dotate di senso, non come semplici soggettivistiche interpretazioni.
Dice André Comte-Sponville nel suo testo Spiritualità per atei: «Che cos’è una spiritualità senza Dio? È una spiritualità dell’immanenza: una spiritualità della fedeltà [alla propria cultura] piuttosto che della fede, dell’amore piuttosto che della speranza, dell’eternità presente piuttosto che dell’avvenire, infine dell’azione e della meditazione piuttosto che dei riti o della preghiera».
Per me, la spiritualità atea è il nostro rapporto, dotato di senso, con l’indefinito; è lo stato d’animo e la sensibilità particolare, sospesa, irriducibile, non del tutto razionalizzabile, che si può provare di fronte a un’opera artistica, a emozioni non metabolizzate.
La spiritualità atea è l’espressione particolare, individuale, di ciò che a livello sociale si intende con il termine Zeitgeist (spirito del tempo) con cui si può sinteticamente interpretare e comprendere, il senso, la tendenza, il carattere di un periodo storico, anche quando si affrontano fenomeni complessi, non del tutto spiegabili razionalmente nei loro dettagli.
Dunque la spiritualità atea non è (non è necessariamente) l’effetto di un’irruzione del sacro nel pensiero laico, non è la dimostrazione di una mancanza (mancanza di dio, o dell’assoluto), come sostengono alcuni religiosi.
In altri termini esiste una spiritualità che si esprime in varie forme, che include le varie spiritualità religiose e le altrettanto varie spiritualità laiche. Ma, se le forme espressive sono diverse, i bisogni che le sottendono sono spesso simili e gli strumenti talvolta unificabili.
STRUMENTI INTERCULTURALI
Tra questi strumenti, c’è la stanza del silenzio, per fermarsi, pensare, raccogliersi, rigenerarsi, meditare o pregare, per elaborare la gioia e la sofferenza, per metabolizzare nuove emozioni, per sedimentare scelte difficili in nuovi contesti, per affrontare speranze e paure, per “accomodare” i propri schemi cognitivi.
La stanza del silenzio è anche uno strumento di inclusione, un servizio in favore dei migranti, ma sarebbe sbagliato intenderlo come risposta alla globalizzazione e alle migrazioni.
Infatti il prototipo è la “camera di meditazione” predisposta dal segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld per i dipendenti ONU a New York nel 1954, cioè nel periodo che gli economisti chiamano “i magnifici trent’anni”, dal 1945 al ‘75, il periodo che ha visto uno sviluppo economico-sociale e una riduzione delle disuguaglianze senza precedenti nella storia dell’umanità, il periodo che è iniziato con la conquista dei diritti politici, è proseguito con l’affermazione dei diritti sociali, ed è culminato con l’avvio della generalizzazione dei diritti civili.
Dunque è a partire dai “magnifici trent’anni“ che i luoghi del silenzio sono apparsi in ospedali, cimiteri, aeroporti, alberghi, università, carceri, di molti Paesi.
Da allora si è consolidata l’idea di una stanza per dialogare in silenzio, per incontrare l’altro, un luogo interculturale, un antidoto alle divisioni e ai muri dove chiunque possa esprimere liberamente il suo pensiero e la sua fede.
Non basta essere liberi dai divieti. Per essere effettivamente liberi serve anche un intervento pubblico per rimuovere gli ostacoli che la limitano, come ci insegna Amartya Sen e tanti altri, e come è scritto nella nostra Costituzione.
Non apprezziamo un multiculturalismo che concepisce la società come somma di ghetti, appartenenze rigide, incomunicanti con l’esterno e uniformanti all’interno, talvolta gestite da élite che preferiscono cristallizzare le differenze per consolidare il loro potere sulla comunità; un multiculturalismo che riduce l’intervento pubblico alla funzione di gestione del conflitto tra comunità, anche a scapito della sostanziale libertà dei singoli.
John Dewey, ci dice che la democrazia non è solo una procedura, non è solo una forma di governo; la democrazia è uno stile di vita, individuale e sociale, che richiede condivisione di valori, propensione allo scambio di esperienze, solidarietà e impegno egualitario. Dunque serve una educazione alla democrazia, ma nella consapevolezza (gramsciana) che ogni pedagogia è egemonia, e viceversa.
Il confronto tra culture, concezioni del mondo, stili di vita, ideologie diverse, per non diventare scontro settario, deve muoversi su un sentiero stretto tra omogeneizzazione forzata e formazione di ghetti, tra una anche inconsapevole riproposizione della superiorità dell’Occidente e un asociale “pluralismo” dell’indifferenza e dell’abbandono.
Dunque servono buone pratiche basate sulla laicità e il rispetto per l’altro, e strumenti che le favoriscano.
ISTITUZIONI LAICHE PER INCLUDERE
La stanza del silenzio non è solo un luogo accogliente, privo di riferimenti religiosi per rispettare i riti e le tradizioni proprie di ogni culto, da dove diramare l’assistenza religiosa per i pazienti non cattolici, o il servizio di assistenza morale non confessionale (AMNC) che l’UAAR fornisce a Torino e in altre città (e che vorremmo sviluppare anche a Milano).
La stanza del silenzio negli ospedali è anche terapeutica; ormai è ampiamente riconosciuto che la salute dipende anche dal benessere psicologico, relazionale, spirituale dell’individuo.
La semiotica Patrizia Violi, dell’Università di Bologna, nel suo libro Paesaggi della memoria: Il trauma, lo spazio, la storia, ci fa notare che «oggi, quando si parla di memoria, si parla sempre più spesso di memoria del trauma (Antze e Lambek 1996). Le commemorazioni riguardano quasi sempre eventi traumatici».
Anche le stanze del silenzio servono innanzi tutto all’elaborazione del trauma e alla sua memoria (alla sua ri-elaborazione), funzione importantissima ma non esclusiva; possono (devono) essere anche il luogo della gioia e della meditazione, non solo del dolore.
Ancora Patrizia Violi ci fa notare che «La memoria […] sembra intrattenere una relazione privilegiata con lo spazio, che diviene una delle modalità principali attraverso cui essa arriva a farsi discorso, a volte senza che ne siamo nemmeno consapevoli».
Infatti la stanza del silenzio, di cui c’è bisogno negli ospedali e in altre “istituzioni“ e luoghi aperti al pubblico, è molto di più di un semplice luogo: è un luogo che costruisce relazioni, è un hardware dotato di un suo software, è un progetto politico inclusivo, è una pedagogia (una pedagogia circolare), è educazione alla democrazia, al rispetto, al dialogo. È la pedagogia di Jerome Bruner e di tanti altri, che ci mostrano la compresenza di un pensiero paradigmatico, descrittivo, che usa proposizioni ben formulate su come le cose sono, e di un pensiero narrativo, normativo, su come le cose potrebbero o dovrebbero essere.
Dobbiamo essere consapevoli che questo “vuoto” della stanza del silenzio, cioè l’assenza di simboli e il silenzio, si fa discorso, a volte senza che ne siamo nemmeno consapevoli, questo vuoto è pienissimo di senso, ha un significato strutturante potentissimo. La stanza del silenzio ci parla forte e chiaro, per una buona causa.
Però è pur sempre uno strumento, per quanto strutturante, e funzionerà se verrà utilizzato. Cioè dipende da noi tutti – individui, associazioni e istituzioni – dalla nostra capacità di trasformare ciò che diciamo in questo convegno in relazioni, in pratiche quotidiane, in rapporti sociali.