Il nuovo ministro dell’Educazione nazionale Gabriel Attal, ha proibito l’abaya nelle scuole pubbliche francesi, in base alla legge del 2004 che proibisce l’ostensione di ogni appartenenza religiosa nelle scuole pubbliche, compresi il velo islamico, la kippa ebraica, i turbanti sikh e le croci cristiane.

Le destre francesi sono favorevoli al divieto, le sinistre sono divise come era già avvenuto in passato sulla questione del “velo”. La France Insoumise di Mélenchon è contraria; favorevoli i socialisti e i comunisti; la CGT sottolinea anche che la proibizione serve al governo per “distrarre” dai veri problemi sociali.

I contrari non mettono in discussione la legge sulla laïcité, che tutela la “neutralità” della scuola, ma l’estensione del divieto all’uso di un abito che non deriva da una esplicita prescrizione religiosa. I favorevoli al divieto (a parte le “motivazioni” degli islamofobi) sostengono che l’abito deve essere vietato perché è comunque usato come simbolo religioso.

In Italia la questione è più complicata perché molti (non solo cattolici ma anche atei devoti) criticano il fondamento della laïcité, considerandola una “laicità negativa”, e sostengono, spesso con plateale ipocrisia, una cosiddetta “laicità inclusiva”.

La differenza fondamentale riguarda l’adesione o meno al principio di Grozio etsi deus non daretur (come se dio non fosse dato) che per i francesi, e per ArciAtea, significa che siamo tutti assolutamente liberi di professare (o no) una religione, ma le “Verità” dogmatiche a cui si crede non devono essere usate nella sfera pubblica; cosa invece in parte ammessa dai teorici del postsecolarismo (Habermas, ecc.) e ostinatamente pretesa dai religiosi, a partire dal papa.

Per Cacciari la laicità “alla francese” sarebbe in realtà l’affermazione della superiorità della propria cultura. Cacciari fa bene a indicare i rischi dell’intolleranza e della mancata integrazione: l’autentica laicità – sostiene – “implica l’accettazione delle usanze, delle tradizioni e della cultura altrui”, altrimenti è supremazia culturale.

Cacciari, però, non sembra considerare il pericolo speculare a quello dell’assimilazionismo, cioè la formazione di ghetti multiculturalisti. Per il multiculturalismo è l’appartenenza (etnica, culturale, religiosa) che definisce l’individuo, non è l’individuo a essere portatore d’identità e appartenenze, con il rischio di portarci a una società come somma di ghetti, corporazioni, comunità locali, appartenenze rigide, incomunicanti con l’esterno e uniformanti all’interno, talvolta gestite da cacicchi che preferiscono cristallizzare le differenze per consolidare il loro potere sulla comunità.

In Italia sembra esserci qualche incertezza sul giudizio del divieto, che oscilla tra il plauso per motivi islamofobi, compreso il compiacimento per le divisioni nella sinistra, e la critica alla “escludente” laicità alla francese. Italia Viva critica il provvedimento, forse anche per le frequentazioni del suo leader (in Arabia Saudita l’abaya di colore nero è stata obbligatoria per le donne in pubblico fino al 2018). Per il ciellino Tempi è “Una misura radicale di difficile attuazione: fermerà l’avanzata dell’islamismo tra i banchi?”.

Arciatea è consapevole che anche una prospettiva universalistica può nascondere forme di oppressione (colonialismo, eurocentrismo, assimilazionismo, ecc.) ma rifiuta l’approccio multiculturalista e comunitarista. Sostiene invece le politiche inclusive che garantiscono pluralismo, dialogo, contaminazione reciproca, autodeterminazione.

Nelle scuole gli obblighi e i divieti devono essere ridotti il più possibile (l’ipotesi di reintrodurre il “grembiule” ci sembra sbagliata e anacronistica) e le differenze devono essere valorizzate, ma spiegandole criticamente, cioè insegnandole, non assumendole come un dato “naturale”. La scuola deve essere un luogo laico, cioè “neutro”.