Nell’incontro presieduto da Federica Cattaneo che si è tenuto alla Casa della Cultura, in presenza e in streaming, sono intervenuti:
Jean-René Bilongo, responsabile politiche migratorie Flai-Cgil;
Leonardo Palmisano, sociologo, ricercatore uniBa.

Vedi il video dell’evento sul canale YouTube di ArciAtea.

Scarica la locandina in pdf dei tre incontri.

Il Gruppo nazionale di lavoro per la stanza del silenzio e/o dei culti e ArciAtea rete per la laicità APS hanno promuosso questa
discussione in tre incontri; dopo il primo appuntamento del 29 novembre “Politiche interculturali per l’inclusione: Contro i ghetti nelle periferie delle città” si è tenuto questo incontro “Politiche interculturali per l’inclusione: Contro i ghetti nelle campagne”; seguirà, sempre alle ore 21, alla Casa della Cultura, via Borgogna 3 Milano, in presenza e in streaming:

Lunedì 13 dicembre 2021 Politiche interculturali per l’inclusione: Quali schemi interpretativi? con
Susanna Camusso, già segr. generale Cgil;
Vincenzo Pace, sociologo, pres. gnlSdS, uniPd;
Cinzia Sciuto, caporedattrice di MicroMega;
coordina Giancarlo Straini, Arci Milano.

[dall’introduzione di Federica Cattaneo]

Questo ciclo di incontri è nato dal rapporto, con il Comune di Milano, di 23 associazioni religiose e non solo, che hanno sottoscritto un protocollo per l’istituzione delle stanze del silenzio, grazie al patrocinio dell’allora assessore Lorenzo Lipparini. Speriamo che la nuova giunta comunale voglia dare continuità a quella iniziativa e voglia riprendere il dialogo con quelle 23 comunità filosofiche e religiose.

Nell’incontro precedente si è parlato di ghetti in città, stasera parleremo di ghetti nelle campagne. Preciso che usiamo il termine ghetti in un senso anche generico; i ghetti del passato erano luoghi stabili dove si confinavano gruppi etnici-religiosi; i ghetti contemporanei sono invece mobili, liquidi, spesso temporanei; nelle campagne si formano e si sciolgono insediamenti e baraccopoli in relazione alle esigenze delle raccolte stagionali.
Come abbiamo ascoltato lunedì scorso, anche nelle città ci sono quartieri “di transito”, dove i migranti trovano il primo appoggio tramite le reti parentali, etniche o religiose, poi gli immigrati si trasferiscono, se riescono a farlo.

D’altra parte, le migrazioni, sia quelle dal meridione e dal nordest degli anni ’50 e ’60, sia quelle internazionali contemporanee, sono da un lato spinte dal bisogno e dall’altro sono “tirate” dalla domanda di manodopera.
Il problema che abbiamo è che la domanda di lavoro che “attira” i migranti, li vuole ricattabili, senza diritti, per poterli sfruttare meglio.

Dobbiamo però essere consapevoli che le forme “estreme” di sfruttamento sono solo la punta di un iceberg. Il caporalato, la tratta per la prostituzione, le nuove forme di semi-schiavitù, sono casi estremi ma che si fondano su un modello di sviluppo basato sulla compressione dei salari e dei diritti, sull’aumento delle disuguaglianze.
Una politica interculturale per l’inclusione non può funzionare se non affronta anche il problema delle disuguaglianze e delle oppressioni, con logica intersezionale.

C’è una convergenza di interessi che consente il caporalato; un sistema che coinvolge tutti gli attori, anche se in modo ovviamente diverso.
– Le grandi imprese di trasformazione e la grande distribuzione che esercita un forte potere su tutta la filiera, e che impone i prezzi con le aste al doppio ribasso.
– Gli stessi consumatori che non si interessano dell’origine di ciò che acquistano, o che non protestano, per il timore di ritrovarsi con un semplice aumento dei prezzi.
– L’imprenditore agricolo che sceglie la via bassa alla competitività, che scarica i problemi sui più deboli, fa dumping sociale e concorrenza sleale alle imprese più corrette.
– Gli amministratori locali, quando non sono apertamente conniventi, si trovano comunque nella scomoda situazione di dover scegliere tra legalità e diritti, da una parte, e sviluppo economico del loro territorio, dall’altra. Spesso si preoccupano solo del consenso elettorale immediato e di schivare i “problemi”.
– Le forze dell’ordine, la magistratura e, in generale, coloro che svolgono funzioni di controllo, che temono per l’impopolarità di un loro intervento (a parte il fatto che spesso non hanno proprio le risorse materiali e umane per effettuare i controlli).
– Gli stessi lavoratori (italiani e immigrati) che sono messi in concorrenza l’uno contro l’altro e spesso si devono accontentare di quel poco che riescono ad avere.
– Infine, i caporali e le varie espressioni della criminalità organizzata che si trovano quindi in un ambiente (per loro) ideale.

Quindi la soluzione non può essere solo contrastare le illegalità palesi.
I casi estremi della tratta e della schiavitù, che ci indignano, sono la parte visibile dell’iceberg. Ma questa poggia sulla parte invisibile, molto più grande e profonda, che non sempre ci indigna.
C’è un legame tra i piccoli soprusi e i grandi soprusi. Non basta un po’ di carità agli ultimi, che consola chi la fa e attenua solo temporaneamente il disagio di chi la riceve.
Serve la solidarietà, cioè la lotta per l’uguaglianza, l’unità tra gli ultimi e i penultimi, tra chi subisce i piccoli e i grandi soprusi, tra la parte sommersa e quella emergente dell’iceberg.
Per restare nella metafora dell’iceberg: la parte emersa si sostiene su quella sommersa.