Sono estremamente grata di poter essere qui stasera, in questo dialogo collettivo, a cui sono stata invitata per portare il contributo di una prospettiva filosofica e di quella che possiamo chiamare spiritualità laica.

Alessandro ha introdotto con la domanda se sia ancora possibile, alla luce di ciò che accade nel mondo, tenere insieme, far dialogare realtà diverse; ma a me sembra chiaro che questa non sia solo una possibilità, ma una certezza.
Perché il nostro semplice essere qui stasera in quanto componenti diverse della società, in quanto prospettive differenti sulla verità, ed essere qui insieme, in dialogo, moderato e misurato, è già di per sé concreta e vivente figura di ciò su cui ci dovremmo interrogare, ma che stiamo già agendo. Ma allora ciò che vorrei proporre è una riflessione su questa realtà che stiamo già incarnando, che le stanze del silenzio possono incarnare, e proporre una concettualizzazione che ne illumini la significatività, tramite i concetti di totalità, di trascendenza e spiritualità laica. L’idea che voglio proporre è infatti quella di una totalità costituita di elementi differenti, che si tengono insieme grazie alla proporzione e alla misura – grazie al dialogo, e che solo in questa totalità che li contiene e pur li trascende, acquistano senso; e inoltre, vorrei individuare nella comune radice di spiritualità laica uno dei fattori che ci unisce.

Dalla filosofia greca ci viene un termine bellissimo per concettualizzare questa totalità fatta di pezzi differenti tra loro in relazione. La parola harmonia. Armonia è termine utilizzato dai primi filosofi greci per descrivere la struttura fondamentale dell’universo, del cosmo e dell’anima – un termine molto tecnico. Una delle prime occorrenze è in Omero, dove il verbo armozein, unire adattando insieme, viene usato in relazione alla zattera che Odisseo si costruisce mettendo accuratamente insieme rami, legni, pezzi tra loro diversi incastrandoli, adattandoli l’uno all’altro, misurandoli, creando proporzione tra loro, mettendoli in relazione fino a che costituiscano qualcosa di unitario, ben strutturato, ben funzionante, atto al suo scopo: una zattera che, solcando i mari, lo porti via dall’isola dell’oblio di sé, Ogigia, per tornare a casa (Od. 5, 302-6). Da questo significato arcaico, armonia acquisisce poi un significato ancora più specifico, musicale e matematico: armonia è il nome di ogni struttura complessa, di cui esempio principe è la scala musicale, in cui elementi diversi e tra loro discordi, come ad esempio le note, possono, se posti in determinate relazioni matematiche e precise proporzioni, risultare consonanti, in accordo, e formare un tutto armonico. Ed essere necessari proprio nella loro diversità, nella loro tensione reciproca, a formare quell’armonia ontologicamente completa e perfetta, superiore alle singole parti componenti.

E allora, tenendo presente questo modello teorico, possiamo dire che sì, è possibile e anzi necessario stare insieme come elementi diversi e anche opposti, tenersi insieme in un’armonia, in una totalità complessa, bella, funzionale, utile, vera. A un patto.
A patto di mantenere tra quei pezzi le giuste proporzioni, le giuste relazioni. La giusta misura. Una proporzione e misura che rimandano in greco al termine logos, che originariamente deriva dal verbo lego, calcolo, raccolgo, dico, e tra i tanti significati ha quelli di calcolo, proporzione, struttura, formula, ragione, logica. E solo dopo, in modo derivativo, “discorso”, parola. Logos è la stessa parola che sta dentro dia-logos, il logos che attraversa, che attraversando i componenti li tiene insieme. E che per definizione, si fonda sul mantenimento della giusta proporzione, la giusta misura l’uno rispetto all’altro, senza prevaricarsi, senza oltrepassare il limite, senza quell’eccesso e dismisura che fa si che un pezzo della totalità sopravanzi l’altro, lo sopraffaccia, spezzando l’unità armonica. Era l’atteggiamento di sopraffazione e di perdita di misura che in greco si chiamava hybris, ed era punita invariabilmente dagli dei. In quel caso, l’armonia si rompe, l’intero è perduto, le parti cessano di essere parti di un tutto ordinato e sensato e diventano parti di un caos, di un nulla senza ordine, senza identità, senza senso e senza valore. E se l’intero si perde, anche le parti non sono più nulla.

Ecco: possiamo pensare ai nostri diversi punti di vista, come ai tanti pezzi necessari a una armonia complessiva, che risulta tale proprio in virtù del tenersi insieme di questi elementi contrastanti, grazie alle giuste misure, proporzioni e relazioni tra essi – il giusto dialogo, la giusta consapevolezza della propria posizione nella totalità, del proprio essere non tutta la totalità da soli, ma parti di un tutto, tutte necessarie, ognuna nella propria posizione, misura e contributo, a quella totalità che è la verità.

Ma perché dovremmo riconoscerci come parti di questa totalità, che ci contiene eppur trascende? E se ciascuno si sente portatore della verità per intero, è possibile (ora sì che lo chiedo) stare insieme con misura agli altri pezzi? E se d’altra parte ciascuno di noi accettasse di essere portatore solo di una parte della verità, che va messa insieme a tutte le altre verità, non cadremmo forse in un relativismo inaccettabile, almeno per le religioni rivelate?

Voglio suggerire che è possibile, e che accettare di essere una parte di verità, o meglio una prospettiva sulla verità, non ci fa piombare nel relativismo, e non ci impone di rinunciare a credere che la nostra sia la verità.
Il punto è che la verità stessa ha i connotati di una totalità complessa che trascende le prospettive singole su di essa. Hegel diceva, il vero è l’intero, e intendeva questo: è solo nella totalità che contiene, sorregge e trascende il finito e il parziale che c’è la verità. La verità non è il parziale, non è il limitato: la verità è la totalità diacronica e sincronica, immanente e trascendente insieme, è l’insieme di tutti gli opposti dialettici e di tutto il loro processo di relazione, è il tutto e non le parti. La verità è anche il vero e il non vero insieme. E trascende la prospettiva del singolo, proprio perché va oltre la limitatezza dello sguardo individuale, e solo la pluralità di tutte le prospettive sommate, prese sia sincronicamente nel presente, sia diacronicamente della storia, può restituirne, o piuttosto sfiorarne, l’infinita, ineffabile complessità. Quella stessa infinita, ineffabile complessità, e semplicità insieme – di nuovo opposti – che per molte tradizioni, come quella della teologia negativa di neoplatonica memoria, è anche Dio. Una concezione della verità e del divino come una totalità talmente superiore alle nostre capacità umane, che talmente ci oltrepassa, ci trascende, da essere incomprensibile, indicibile, ineffabile dal punto di vista del singolo e del finito. Un’Idea del divino, che poi è un modo di chiamare la Verità, che non è catturabile dalla limitata logica del principio di non contraddizione e dell’ aut/aut, ma è la totalità degli opposti, la totalità degli et-et, che di troppo eccede e oltrepassa la nostra finitudine per essere pensata, detta, espressa in parole, e certo non in un modo solo.
Ciò non significa che la verità sia soggettiva: la verità è oggettiva, sono le vie di accesso a essa che sono soggettive. La verità è una ed è totale, ma le vie biografico-storiche per accedervi, sono tante. E nel suo essere oggettiva, è talmente infinitamente superiore a qualsiasi prospettiva limitata, che solo la somma totale delle innumerevoli prospettive su di essa può forse avvicinarsi a coglierla, e tuttavia ancora mancherebbe qualcosa, tuttavia ancora esse le trascende e le supera.

Ora, gli agnostici e gli atei tra di noi si sentiranno a questo punto forse esclusi da questo discorso, perché forse non si riconosceranno come “pezzi di una totalità che ci contiene e ci trascende”, di una verità così complessa e ineffabile che solo la pluralità delle prospettive può avvicinarsi ad essa. Ma vorrei suggerire una lettura che include anche loro, noi, in questa totalità.
Perché da un punto di vista filosofico, è proprio anche la presenza di atei e agnostici, la loro prospettiva che nega che ci sia tale verità, a essere necessaria al tutto. La totalità è tale infatti solo se comprende anche la propria negazione. La verità come totalità è proprio quella che include tutti gli opposti, anche la negazione di essa. Il mistero della vita e del senso è tale, talmente inarrivabile e superiore a qualsiasi prospettiva singola, proprio perché include anche la prospettiva che quel mistero e quel senso nega.

Non solo; c’è un altro motivo per cui tutti noi, cristiani, buddhisti, musulmani, ebrei, atei, agnostici siamo parti di questo tutto. Ed è che tutti noi siamo accomunati da una stessa tensione, che è la tensione stessa che costituisce l’umano in quanto umano: la tensione alla trascendenza, intesa come tensione all’andare oltre noi stessi, oltre il nostro piccolo io, verso un oltre e altro dal nostro individuale che è quell’anelito, il movimento che ci porta a umanizzarci pienamente.
È un’idea che risale almeno a Platone che nel Simposio fa dell’eros, del desiderio inesauribile per la verità, la sapienza, il bene la cifra dell’umano, il motore di ogni percorso evolutivo, filosofico, spirituale, ogni cammino che, nel tendere a ciò che va oltre il proprio piccolo io, porta l’umano a farsi pienamente umano; Platone lo esprime con la formula “farsi simili a dio per quanto possibile”, al fine di farsi pienamente umani. E qui Platone non ha in mente il dio di nessuna tradizione religiosa, ma usa questo termine come sostituto di bene, verità, conoscenza, totalità.
In tempi più recenti, la filosofa Maria Zambrano si è riferita alla trascendenza in modo simile, quando scriveva: “la trascendenza non è altro che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra; trascendenza che si acuisce e giunge all’estremo nella vita umana, nella ‘irrefrenabile inclinazione della persona”. Tale inclinazione irrefrenabile forse non può mai essere compiuta adeguatamente; se però rimane incompiuta sotto un certo limite, la vita umana sprofonda nell’inquietudine, in una solitudine e in un’agitazione sterile. Ciò che Ortega ha chiamato il più grande tesoro dell’uomo, la sua “divina insoddisfazione” e che sicuramente non è altro che questa sete di trascendenza, deve avere un certo supporto, un certo orizzonte, un contatto o una comunione con quanto ci circonda”.

Ecco, questa tensione, quest’intimo e costitutivo anelito alla conoscenza, al bene, all’oltre- e all’altro da-noi, alcuni di noi lo chiamano Dio, ma può anche, per alcuni non avere nome – ma è comunque ciò che ci da compimento, che solo può conferirci un senso, nella doppia accezione di significato, e di direzione, orientamento.
Pierre Hadot, grande storico della filosofia greca, ha rinvenuto proprio nella filosofia greca un esercizio costante di trascendenza, una pratica dell’andare oltre se stessi, verso la verità, la conoscenza, la bellezza, il bene, e ha individuato tre trascendenze: quella verso il discorso vero, la verità; quella verso gli altri, quindi la comunità; quella verso il cosmo, quindi la natura, la totalità del vivente.
E queste tre tensioni alla trascendenza, come andare oltre sé, oltre i propri limiti, verso la verità, verso gli altri, verso la natura, in un anelito ad altro, ad oltre a noi, che è ciò che ci compie e ci conferisce senso, possono esser anche di un agnostico, di un ateo – non sono esclusivo appannaggio delle confessioni religiose, sono invece un tratto distintivo dell’esperienza umana alla ricerca di senso.

Di più: anche la chiamata a diventare sempre più autenticamente se stessi, può essere letta come una chiamata al trascendersi. Jung, nel contesto della sua psicologia analitica, ha parlato della funzione trascendente, come di quella funzione psichica che, quasi finalisticamente, porta ciascuna psiche all’autorealizzazione, all’autocompimento, un “diventare sempre più ciò che si è”, più pienamente umani – un processo che Jung chiamava individuazione, mai del tutto terminabile, ma che in questo tendere inesausto ci perfeziona, e che alcuni hanno avvicinato a un cammino spirituale. Non per niente, Jung stesso individuava come simboli di questo Sé più completo verso il quale ciascuno di noi tende asintoticamente in Cristo e Buddha, come figure divine in quanto umani che si sono fatti pienamente umani.
Allora anche la costante disponibilità a mettersi e a rimettersi in un cammino di trasformazione e umanizzazione, un cammino verso se stessi, che implichi un superare se stessi, e un tendere all’altro, all’oltre da sé, che sia sociale, che sia politico, che sia naturale o cosmico, è un cammino verso la trascendenza, un cammino di spiritualità – anche se si è atei. Un cammino che possiamo chiamare di spiritualità laica.

Concludo citando due esempi di questa spiritualità radicale, che include ma va oltre le religioni e può tenere in sé anche chi religioso non è: Raimon Panikkar e Bernard Besret.
“scrive Panikkar: “È evidente che le religioni non dicono la stessa cosa e che le loro rispettive dottrine sono diverse e molte volte incompatibili. Ma è altrettanto evidente che coloro che hanno compiuto un’esperienza profonda della realtà in modo concreto, come i mistici per esempio, non percepiscono incompatibilità tra di esse”.
Besret invece dice: “Aspiro […] ad una spiritualità laica, per paradossale che possa sembrare l’espressione. Una spiritualità filosofica, non dogmatica, […] Una spiritualità sapienziale attenta a tutte le espressioni che la saggezza degli uomini ha potuto prendere nel corso dei millenni. Una spiritualità radicale che si sforza di attingere alla radice stessa del nostro essere. Una spiritualità che raggiunge così ciò che è alla radice delle diverse tradizioni, non in ciò che hanno di più specifico, ma al contrario in ciò che la loro specificità traduce di più universale”.

Allora questo riconoscimento della comune tensione alla trascendenza, come l’ho proposta, che è il fondamento della misura reciproca e del dialogo, perché ci permette di riconoscerci come parti di un tutto, non richiede di abdicare alla propria specificità, di disconoscere la peculiarità storica, culturale e biografico di ogni religione o di ogni individuo; ma di riconoscere un tratto comune al di sotto delle differenze, che anzi quelle differenze fonda e sostiene, come una singola falda acquifera da vita a tanti fiumi, una sola radice da vita a tanti rami. Chiede di riconoscere come comune questo slancio intrinseco all’umano che è la tensione al completarsi nell’altro e nell’oltre da sé, che accomuna cristiani, buddhisti, musulmani, ebrei, hindu, ma anche agnostici e atei – purché pratichino una spiritualità radicale di questo tipo, autentica, laica – perché accomuna tutti gli umani nel proprio cammino di autorealizzazione (un avvicinamento a dio, per chi ci crede, una piena umanizzazione, per gli altri) – accomuna insomma tutti gli umani che, nella propria pratica di vita, al di là delle teorie, cercano il bene, e un senso dell’esistenza che vada oltre se stessi.

Relazione di Laura Rosella Schluderer al convegno Spiritualità e intercultura del 14 dicembre 2023 presso la Casa della Cultura di Milano (pdf)

Spiritualità e intercultura: un confronto tra diverse visioni giovedì 14 dicembre alla Casa della Cultura, con Miriam Camerini (regista e studiosa di ebraismo), Emanuele Campagna (Centro Evangelico di Cultura di Sondrio), Laura Rosella Schluderer (Abof, Phd Cambridge), Giancarlo Straini (Arciatea rete per la laicità), imam Abdullah Tchina (Centro Culturale Islamico Milano Sesto), conclusioni del prof. Enzo Pace (sociologo unipd), coordinato da Alessandro Bonardi (gruppo nazionale per la Stanza del silenzio).