La guerra produce sofferenze indicibili. Dobbiamo mobilitarci per fermarla e per soccorrere i profughi, mettendoci tutto il nostro impegno. Dobbiamo anche evitare di farci omologare dalla propaganda, di accontentarci di qualche gesto caritatevole. La guerra si combatte anche mantenendo un pensiero critico.

Un clima di guerra alimenta lo schema amico/nemico, o sei un patriota o sei un traditore. Anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina, nella politichetta italiana dominava lo schema del tifoso, versione meno tragica ma pur sempre basata su uno schieramento pre-razionale, che distingue nettamente i “buoni” dai “cattivi”, non le idee buone da quelle cattive, che non consente pensieri complessi, perché la parola d’ordine è una sola: vincere! vincere asfaltando l’avversario.

Noi – che non abbiamo il minimo dubbio nel condannare l’invasione russa – ci domandiamo anche perché siamo giunti a questo e, soprattutto, come possiamo contribuire a una soluzione pacifica. Capire le origini dell’aggressione ci serve non per giustificare in qualche modo gli aggressori, ma soprattutto per prospettare le soluzioni possibili e le azioni coerenti per realizzarle.

Il nemico è la Russia di Putin che aggredisce, non tutti i russi (tanto meno il russo Dostoevskij censurato dall’Università Bicocca). Gli amici sono quelli che difendono gli ucraini aggrediti, ma è lecito domandarsi se alcuni di loro si siano sempre comportati “amichevolmente”, se abbiano in varia misura contribuito alla tragedia, se prospettino “soluzioni” nell’interesse delle vittime dell’aggressione.

In Ucraina, come in tanti altri Paesi, ci sono differenze e contrasti, nel caso soprattutto tra ucraini dell’est ortodossi, russofoni, con legami anche economici con la Russia, e ucraini dell’ovest, cattolici, più interessati a integrarsi con la UE. La vicenda del Donbas, che si trascina sanguinosamente da anni, mostra che molti – in Ucraina, in Russia, in Occidente – hanno alimentato i rispettivi identitarismi e non la negoziazione di un ragionevole compromesso tra le due parti.

Ora è più difficile trovare un compromesso realistico – che salvaguardi la sovranità dell’Ucraina, i diversi interessi degli ucraini dell’est e dell’ovest, il rispetto della legalità internazionale e un assetto che garantisca la sicurezza di tutti – ma questo è l’obiettivo che dobbiamo perseguire, da subito con una tregua e un vero negoziato.

Dobbiamo manifestare contro la guerra e aiutare i profughi (anche quelli sgraditi alle guardie polacche), ma l’invio di armi è un errore. Anche chi non fosse un pacifista, contrario per principio, dovrebbe domandarsi se inviare armi oggi – dato che non ci sarebbe neanche il tempo necessario per incidere concretamente sul campo a breve termine – sia coerente con l’obiettivo del cessate il fuoco e di una soluzione negoziata, cioè con una soluzione auspicabile, difficile, ma possibile a breve termine.

Temiamo che interessi geopolitici contrapposti portino a una escalation voluta sia da chi vorrebbe “riportare nell’impero zarista” l’Ucraina, sia da chi vorrebbe trasformarla in un nuovo Afganistan con una lunga guerra di logoramento per gli occupanti.

Entrambe queste politiche si scaricherebbero con effetti devastanti direttamente sugli ucraini, e indirettamente anche su tutti noi, con conseguenze economiche (aumento delle bollette, chiusure di fabbriche), politiche (ulteriore allontanamento della prospettiva degli Stati Uniti d’Europa), culturali (alimentando una retorica bellicista che ci impedisce di ragionare sulle ragioni e sui torti, anche trasversali).

Manifestare contro la guerra non è solo un dovere morale, è anche un interesse comune – economico, politico e culturale – di chi vive in Ucraina, in Italia, ovunque.