La costituzione italiana del 1948 è estremamente avanzata per molti aspetti, ma non per quello della laicità. Il richiamo ai Patti Lateranensi presente nell’articolo 7 è un grave vulnus ed è contraddittorio rispetto ad altri articoli e all’impianto stesso della Costituzione.
C’è voluta una sentenza della Corte costituzionale per dichiarare che la laicità è un fondamento, un principio “supremo”. La Corte costituzionale, cioè, ha chiarito che, pur mancando una dichiarazione esplicita di laicità, la si deve considerare un presupposto, desumibile per via interpretativa da vari articoli, insieme all’aconfessionalità, all’equidistanza tra le diverse religioni e le concezioni filosofiche, al pluralismo, al divieto di discriminazione tra i culti.
Non possiamo che gioire degli interventi della Corte costituzionale nel colmare le mancanze dei costituenti, ma siamo anche coscienti che una “interpretazione”, per quanto autorevole, è più facilmente reinterpretabile di un testo che dichiari esplicitamente la laicità dello Stato: anche per questo motivo ci battiamo per togliere il riferimento ai Patti Lateranensi dall’articolo 7.
L’attacco alla laicità dello Stato, però, assume anche forme meno esplicite, più indirette: ci riferiamo al cavallo di Troia della sussidiarietà, introdotto in Costituzione con la modifica del Titolo V nel 2001.
Il principio di sussidiarietà prescrive che “una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità”(Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus del 1991).
Il concetto si distingue in sussidiarietà negativa, cioè in un orientamento antistatalista, che vuole tutelare individui, famiglie e comunità dall’ingerenza dello Stato, e in sussidiarietà positiva, cioè la richiesta allo Stato di favorire, anche con sussidi, il livello inferiore rispetto a quello superiore (quest’ultima è una caratteristica del cattolicesimo, i protestanti rivendicano l’autonomia delle sfere e non pretendono sussidi).
Si può quindi anche distinguere in sussidiarietà verticale, quando si vuole privilegiare l’istanza inferiore rispetto a quella superiore (per esempio il Comune rispetto alla Regione, o la Regione rispetto allo Stato), e in sussidiarietà orizzontale, quando si vuole privilegiare l’iniziativa privata (profit e non profit) rispetto a quella pubblica.
I sostenitori della sussidiarietà, per nobilitarla, si sforzano di trovarne origini antiche: richiamano il termine latino “subsidium” che però indicava le truppe ausiliarie, inquadrate (molto gerarchicamente) negli eserciti degli antichi romani, che erano tutt’altro che comunitaristi. Gli stessi cristiani smisero di esserlo quando da perseguitati divennero persecutori e, almeno dal Concilio di Nicea del 325 (convocato e presieduto dall’imperatore Costantino I), si adeguarono al centralismo imperiale e lo adottarono rafforzando progressivamente la gerarchia incentrata sul vescovo di Roma, sul papa.
I sostenitori, inoltre, richiamano il giusnaturalismo di Tommaso d’Aquino, e la sua lettura di Aristotele, che rappresenterebbe la “radice culturale” dell’Europa (il principio di sussidiarietà accomunerebbe pensiero cattolico ed europeo). Per Tommaso le istituzioni terrene sono subordinate a quelle celesti; il suo personalismo affranca individui e comunità dal potere politico, ma perché è anch’esso subordinato all’autorità divina. Su questa base i cattolici rivendicheranno la prevalenza del potere “spirituale” su quello temporale (vedi le varie lotte per le investiture).
In realtà la sussidiarietà nasce a fine ‘800 a seguito della perdita del potere temporale della chiesa cattolica. Dopo una prima reazione di contrapposizione frontale e di sdegnosa estraneità (non expedit), e prima di dichiarare (ipocritamente e tardivamente) che la perdita forse era stata un disegno della divina provvidenza, la chiesa si è trovata costretta a operare “dal basso” per cercare di recuperare il potere perso.
È nata così la dottrina sociale e la sussidiarietà, per combattere il liberalismo e il socialismo, discendenti dall’antenato comune dell’Illuminismo. La dottrina sociale predica la collaborazione tra classi e “corporazioni” con una visione organicistica; la persona è anteposta allo Stato perché i suoi diritti (che comprendono la proprietà privata) sarebberoinviolabili in quanto “naturali” (definiti dalla creazione); invece lo Stato Nazione sarebbe una costruzione artificiale, che si contrappone agli individui, alle famiglie, alle comunità.
Le principali encicliche che riprendono questi concetti sono la Rerum novarum di Leone XIII del 1891, la Quadragesimo anno di Pio XI del 1931 e la Centesimus annus di Giovanni Paolo II del 1991.
Il ritorno in politica dei cattolici ha comportato una pressione costante per inserire il principio di sussidiarietà nell’ordinamento giuridico.
La sussidiarietà compare nel trattato che istituisce la Comunità Europea nel 1957 (art. 5 ex 3B) e nel Trattato di Maastricht del 1992. In Italia la sussidiarietà è stata costituzionalizzata con la modifica del Titolo V del 2001, sull’onda delle spinte “federaliste”.
Però il principio di sussidiarietà non è diventato uno strumento cogente di ripartizione delle competenze. Innanzi tutto perché – come ha scritto Sabino Cassese nel 1995 – è “ambiguo, con almeno trenta diversi significati, programma, formula magica, alibi, mito, epitome della confusione, foglia di fico”.
La Corte costituzionale italiana ha resistito alla devolution e ha bilanciato la sussidiarietà verticale, che privilegia gli Enti locali, con il principio di unità e indivisibilità della Repubblica; ne è risultato un invito alla leale collaborazione nel quadro della “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni.
Anche in Europa il principio di sussidiarietà è stato interpretato in modo elastico, a seconda delle circostanze; talvolta è stato usato per decentrare, in altre occasioni per accentrare, in genere l’ambiguità del concetto denunciata da Sabino Cassese è stata usata per giustificare a posteriori le scelte politiche effettuate.
In sostanza la sussidiarietà non ha sfondato come principio ordinatore ma ha consentito in molte occasioni l’aggiramento del principio di laicità e l’indebolimento dello stato sociale universalistico.
Con il principio di sussidiarietà sono stati giustificati i Patti, con il fascismo nel 1929 e il nazismo nel 1933, che hanno consentito alla chiesa di mantenere una propria presenza organizzata nel sociale anche con questi regimi, e un vantaggio nel dopoguerra rispetto all’associazionismo laico democratico che ha dovuto ripartire da zero.
Il volontariato e le associazioni non profit esprimono ideali e pratiche nobilissime, ma dalla fine degli anni ‘70, in particolare con Reagan e Thatcher, e poi con la globalizzazione degli anni ‘90, l’egemonia del pensiero neoliberista ha promosso il Terzo Settore – dove c’è una grande presenza delle associazioni cattoliche – con lo scopo esplicito di supplire alla presunta “insostenibilità” del welfare universalistico, per privatizzare e precarizzare, con la sanità convenzionata e la scuola paritaria.
La sussidiarietà – sia pure con i limiti accennati sopra – è stata promossa nelle istituzioni e nel sociale grazie alla convergenza tra il neoliberismo compassionevole e la carità cristiana, entrambi gerarchici e antiegualitari, contrari all’intervento dello Stato per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Cost. Art. 3).
Cattolicesimo e neoliberismo convergono verso la sostituzione degli diritti universali (egualitari) con la gerarchica carità, che attenua le contraddizioni più aspre ma conferma le asimmetrie di potere.
Le forze politiche progressiste – che hanno adottato il pensiero debole e hanno abbandonato la rappresentanza dei ceti popolari consegnandoli al nazional-populismo – hanno subìto (talvolta inconsapevolmente) il fascino della sussidiarietà.
Il pensiero laico dovrebbe esprimere almeno un po’ di capacità critica e – come Virgilio nell’Eneide (timeo Danaos et dona ferentes) – temere i “greci” anche quando portano doni: i “doni” della compassione, del decentramento, del ruolo della società civile, del terzo settore, del non profit, dei beni comuni, con cui narrano la sussidiarietà e con cui sono riusciti a entrare nella cittadella della laicità, che però non sembra destinata a cadere come Troia, nonostante tutto.
Giancarlo Straini
[pubblicato sulla rivista NonCredo n. 70]