Oggi nel nostro Paese si può parlare apertamente di eutanasia e suicidio assistito mentre, solamente trent’anni fa, erano tematiche che non potevano neppure essere prese in esame, non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche da gran parte della cultura laica che tendeva a considerarle pratiche infami.
Particolarmente dura era la condanna da parte della classe medica italiana.
Nel 1991 una proposta del Parlamento europeo redatta da una Commissione presieduta dal cancerologo francese Leon Schwartzenberg aveva affermato che:
“mancando qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative correttamente impartite sul piano tanto psicologico quanto medico e ogniqualvolta un malato pienamente cosciente chieda, in modo insistente e continuo, che sia fatta cessare un’esistenza per lui ormai priva di qualsiasi dignità, ed un collegio di medici, costituito all’uopo, constati l’impossibilità di dispensare nuove cure specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta senza che in tal modo sia pregiudicato il rispetto della vita umana”.
Di fronte a questa risoluzione l’allora presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Chirurghi Eolo Parodi aveva tuonato:
“’Eutanasia’. Una parola che non deve esistere nel vocabolario del medico.
Non ne vogliamo addirittura sentir parlare dal momento che il nostro Codice deontologico proibisce perentoriamente la dolce morte […] che quasi con perfidia viene subdolamente legittimata dalla proposta della Commissione europea”
A Parodi si contrappose unicamente il neurologo Renato Boeri, fondatore della Consulta di Bioetica, associazione di volontariato culturale laico nata a Milano alla fine degli anni ‘80, che due anni dopo avrebbe pubblicato proprio un documento in difesa dell’eutanasia.
Condividendo la sua ‘coraggiosa’ posizione mi ero iscritto alla Consulta di Bioetica e avevo iniziato a partecipare alle riunioni che, a quei tempi, si svolgevano nel salotto della sua abitazione, più che sufficiente ad accogliere il numero esiguo di ‘carbonari’.
Passati alcuni anni, nella primavera del 1997, notai con grande sorpresa che il famoso giornalista Indro Montanelli, che all’epoca teneva sul Corriere la rubrica di dialogo con i lettori denominata ‘La Stanza’, aveva improvvisamente dedicato all’eutanasia ben due Stanze nel giro di un solo mese.
Nella prima confessava il suo rimorso per non aver saputo alleviare le sofferenze terminali della moglie colpita da un ictus, e denunciava “il peggiore degli abusi, quello di costringere un malato senza speranza a prolungare sofferenze inutili”.
Nella seconda dichiarava la sua stima e ammirazione per Giorgio Conciani, un medico fiorentino radiato dall’Albo dei medici per aver prescritto un farmaco in dosi potenzialmente letali a una donna di sua conoscenza che aveva già manifestato ripetutamente il proposito di togliersi la vita.
Ho quindi pensato di scrivergli, chiedendogli se era disposto a promuovere lui stesso un documento in favore dell’eutanasia simile a quello sottoscritto in Gran Bretagna tempo addietro da diversi famosi personaggi pubblici.
Verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, infatti, la rivista ‘The Umanist’ fece scalpore pubblicando un manifesto firmato da numerose personalità del mondo scientifico, fra cui i Nobel Linus Pauling, George Thomson e Jacques Monod, che dichiarava apertamente “crudele e barbaro esigere che una persona sia mantenuta in vita contro la sua volontà, rifiutandole la liberazione che desidera dolcemente e facilmente quando la vita ha perduto per lei ogni dignità, bellezza, significato e prospettive di avvenire”.
Il mio invito a Montanelli era un’iniziativa personale che, in modo un piuttosto ‘disinvolto’, avevo fatto credere fosse della Consulta di Bioetica, per aver maggiori possibilità di ricevere una risposta.
E in effetti la risposta giunse, con un rifiuto, per ‘ragioni anagrafiche’, seguito da una ‘disponibilità alternativa’:
“Se lei da un’occhiatina al mio certificato di nascita, – scrisse Montanelli che allora aveva 88 anni – capirà perché non posso accettare.
Però se le serve il mio nome in calce a un appello o manifesto, lo usi pure”.
Sfortunatamente, la disponibilità della firma di Montanelli non ebbe seguito in Consulta, per la netta contrarietà dei medici palliativisti, i quali temevano che una dichiarazione eclatante in favore dell’eutanasia potesse compromettere l’approvazione di una legge sul ‘Testamento Biologico’ che, solo trent’anni dopo, nel 2017, è stato faticosamente legittimato con il nome di ‘DAT’ (Disposizioni Anticipate di Trattamento) nella Legge 219/17..
Tuttavia, nei successivi quattro anni, e cioè fino alla sua morte avvenuta nel luglio 2001, Montanelli ha colto ogni occasione offerta dai suoi lettori o dalla cronaca, per ribadire puntigliosamente il suo sostegno in favore dell’eutanasia, utilizzando la sua Stanza, alcune inviti a dibattiti pubblici e anche articoli in prima pagina sul Corriere.
“Sull’argomento sono già intervenuto a più riprese e in termini che non si prestano a fraintendimenti, ma torno volentieri su questo tema che mi appassiona.”
E proprio la tenace continuità dei suoi lucidi e appassionati interventi, diluiti nell’arco di quattro anni ha fatto di Indro Montanelli, alla fine del secolo scorso, l’icona della libertà di fine-vita nel nostro Paese.
E così, avendo raccolto e messo da parte tutto ciò che Montanelli aveva scritto e detto in proposito, al momento della sua morte, mi sono ritrovato, a conti fatti, una ventina fra Stanze, articoli e resoconti di interventi pubblici che mi sentivo in dovere di valorizzare, vista la disponibilità della sua firma e, soprattutto, tenendo conto del fatto che nessuna delle tre principali biografie (di Marcello Staglieno, Paolo Granzotto e Tiziana Abate) lo avevano fatto.
Dopo essermi assicurato il nulla osta del Corriere della Sera, avevo realizzato alcune copie di un fascicolo contenente la riproduzione testuale delle stanze, ciascuna seguita da una cornice esplicativa che forniva chiarimenti sulla tematica trattata, ma una serie di difficoltà e ostacoli inattesi mi hanno convinto a non proseguire oltre.
Solo a vent’anni anni di distanza, incoraggiato e concretamente sostenuto dal filosofo e saggista Giovanni Fornero, e aggiungendo alla motivazione originale un proposito divulgativo sui casi di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, sulla Legge Lenzi fino alla disobbedienza civile di Marco Cappato avvenuti nel frattempo, questo lavoro si è concretizzato nel libro “Sceglierò io quando e come morire”; La battaglia di Indro Montanelli per un fine vita dignitoso’.
Si tratta di un saggio auto-prodotto, agile, non solo nelle dimensioni e nei contenuti, ma anche nella grafica con frequenti spaziature ed evidenziazioni che alleggeriscono la lettura, come avviene negli articoli on line.
Il proposito si è concretizzato proprio adesso anche sulla base di una considerazione, che si ricollega al titolo di questa breve relazione: ‘La buona morte come conquista civile trasversale’.
Infatti – come osserva Fornero nella sua Presentazione – “In questo caso chi parlava dell’eutanasia come di una ‘conquista di civiltà’ era un liberale che non apparteneva alla cultura di ‘sinistra’, bensì a un’area considerata di ‘destra’. Il che potrebbe – anzi dovrebbe – suggerire l’idea che il diritto di andarsene è qualcosa che non solo riguarda tutti ma che, al di là delle diverse appartenenze politiche, può essere fatto proprio da tutti.”
Si tratta di un’osservazione importante, considerando che l’odierna presenza nel nostro Paese del Parlamento e del Governo più a destra del dopoguerra richiede una moltiplicazione degli sforzi, per difendere i diritti civili acquisiti e, ancor più, per conquistare quelli che mancano.
Ed è anche per questo motivo che la pubblicazione del libro è stata accompagnata da un significativo supporto pubblicitario su carta stampata, nella speranza che gli stimoli tuttora attuali di Montanelli fossero rilanciati dai media che fanno opinione.
Tra gli spunti offerti da Montanelli sono tre quelli che ritengo più significativi:
1 – L’appello a Parlarne e Riparlarne
2 – La messa a fuoco della ‘Questione Fondamentale’
3 – La denuncia dell’’Abuso Clericale’
1 – Nel luglio 2000 Montanelli sente la necessità di condurre l’eutanasia fuori dalla Stanza e, grazie alla disponibilità del Corriere, la porta in prima pagina con un articolo dal titolo sferzante: ‘Il tabù caduto, i soliti bigotti’.
Montanelli giustifica la sua scelta perché nel dibattito pubblico sembrano presentarsi alcuni segnali incoraggianti che ritiene di non dover lasciar cadere, fra cui la presa di posizione del grande medico Umberto Veronesi che aveva detto:
“Come medico ho il compito di prolungare al massimo la vita, ma come cittadino rilevo che il problema dell’eutanasia esiste e non può considerarsi un tabù: non possiamo ignorarlo e quindi parliamone”.
Montanelli, apprezzando l’apertura di Veronesi, ne rilancia l’appello senza peli sulla lingua:
“Contro il diritto del paziente di decidere fino a che limite le sue forze lo dispongono all’accettazione delle sofferenze fisiche o morali di un’agonia senza speranza, le arroganti obiezioni dei bigotti sia della Chiesa che della Scienza sono destinate alla sconfitta,
Parliamone, quindi, parliamone”.
2 – Interpellato da un lettore sulla drammatica vicenda di un giovane ricercatore universitario affetto da una grave cardiopatia, ucciso con cinque fiale di insulina dall’amico che aveva esaudito la sua richiesta di essere aiutato ad abbandonare la vita, Montanelli coglie l’occasione per mettere a fuoco quello che ritiene essere l’aspetto essenziale della questione:
“La questione fondamentale da risolvere è se l’uomo abbia o no il diritto a rinunziare alla vita quando questa gli diventi, per qualche motivo di cui lui solo può essere arbitro, insopportabile. Su questo punto le mie idee, giuste o sbagliate, sono chiarissime.
Non ci vengano a raccontare che la vita è sacra perché ci viene da Dio. Tutto viene da Dio, anche terremoti, il che non ci obbliga a morire sotto le macerie”.
La stessa ‘questione fondamentale’ viene riproposta in seguito da Montanelli con un interrogativo incalzante, cui è difficile sfuggire:
“Ha o non ha il paziente il diritto di stabilire egli stesso il punto in cui le sofferenze fisiche e morali, cui è condannato senza speranza, soverchiano le sue forze di resistenza e di attaccamento alla vita?”
3 – Ma c’è anche un terzo stimolo che si può trarre dalla ‘Battaglia nella Stanza’ di Montanelli, in grado di fronteggiare le “arroganti obiezioni dei bigotti della Chiesa”
“A me sembra – scrive Montanelli – che l’insegnamento della Chiesa debba valere per chi crede nella Chiesa, cioè per i fedeli ma non per i cittadini, fra i quali ci sono miscredenti, agnostici, e seguaci di altre religioni.
Perché costoro debbono adeguarsi a un ‘credo’ nel quale non credono?
La Chiesa ha tutto il diritto di continuare a predicarlo […] ma quando cerca d’influenzare la Legge Civile commette un abuso, perché toglie al cittadino una scelta che gli appartiene“.
In sintesi, la denuncia dell’abuso che commette la Chiesa ogniqualvolta cerca di trasformare un peccato in reato e insieme la condanna del “peggiore degli abusi”, quello di “costringere un malato senza speranza a prolungare sofferenze inutili”, rappresentano il lascito vibrante, e sempre attuale, della battaglia di Montanelli per il riconoscimento diritto di “scegliere quando e come congedarsi dalla vita”.
Tuttavia, così come si è dovuto constatare che né la passione civile, né il rigore delle argomentazioni hanno potuto evitare alla ‘Battaglia nella Stanza’ un prematuro oblio, o forse piuttosto una deliberata rimozione, sembra ragionevole supporre che neppure la pubblicazione del libro in sé, sia in grado di porvi rimedio se non accompagnata da qualche iniziativa correlata, opportunamente pianificata e calendarizzata, che dagli stimoli di Montanelli tragga spunto nella convinzione che il diritto di scegliere quando e come morire possa essere una conquista trasversale, cioè fatta propria anche dal pensiero di destra.