30 giugno 2018: convegno “Le ragioni dell’ateismo”, relazione di Maria Turchetto

RAZIONALISTA, AGNOSTICA, ATEA

Ho dato un titolo a questa “introduzione” al convegno: RAZIONALISTA, AGNOSTICA, ATEA. Parlo di me stessa (“scusate se da sol mi presento”, direbbe il Prologo de I pagliacci) e lo faccio invertendo l’ordine delle parole che compongono il nome della nostra associazione, l’UAAR, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Cercherò di mostrare che “invertendo l’ordine il risultato non cambia”, come dice la proprietà commutativa (del resto, se si applica all’addizione, può andare bene anche per un’unione). Mi riconosco infatti nell’intera sequenza di termini, letta però al contrario: sono razionalista, perciò agnostica, perciò atea.
Farò qualche considerazione su questi termini, sperando di dare qualche indicazione di carattere generale e non solo relativa a me stessa e al mio percorso razionalista, agnostico, ateo.
Dirò la verità: non nel senso forte per cui ritengo di detenere una qualche verità, ma nel senso debole per cui non sarò ipocrita. Dirò quello che penso davvero: che potrebbe non risultare gentile.

RAZIONALISTA
Sì, sono razionalista: cioè mi affido alla sola ragione per conoscere, decidere, agire, orientarmi nel mondo. So bene che la ragione ha i suoi limiti, so che ci sono cose che mi sfuggono e che non posso controllare razionalmente, ma non ritengo di avere altri strumenti utili per stare al mondo. Escludo che fede, magia, toccarsi le palle o raccomandarsi a Padre Pio abbiano la benché minima efficacia, perciò non mi affido a queste altre pratiche.
Dovrei aprire qui una piccola parentesi filosofica. Uso il termine “razionalismo” in senso generico, non nel significato più ristretto, tecnico e storico che si impiega in filosofia. Nella filosofia moderna, infatti, si parla di razionalismo contrapponendolo all’empirismo, con riferimento alla discussione seicentesca sulla priorità da dare all’intelletto o ai sensi nella genesi della conoscenza – Cartesio contrapposto a Hume, per dirla in breve. Per fortuna questa contrapposizione risulta superata nell’epistemologia scientifica contemporanea. Il mio filosofo della scienza preferito, Gaston Bachelard, parla di “razionalismo applicato” o “materialismo razionale” per indicare un doppio percorso in cui la ragione organizza l’esperienza e l’esperienza reagisce a sua volta sull’ipotesi razionale modificandola.
Ma non voglio dilungarmi oltre su questo punto. Sono sicura che quando mi definisco “razionalista” nel senso generico precisato capite benissimo cosa intendo: mi affido alla ragione per stare al mondo.

AGNOSTICA
Sono razionalista, mi affido alla ragione. Ora, la ragione si applica a oggetti ragionevoli: non posso argomentare razionalmente sulla natura della non-morte dei vampiri, sull’apparato digerente degli ippogrifi, sulla taglia di reggipetto della Befana o sull’esistenza di Dio. Non posso argomentare razionalmente – e tanto meno verificare sperimentalmente – nemmeno la non-esistenza di Dio, ma che me ne importa? È una questione vana, come diceva Kant (spostando la questione della religione dalla ragion pura alla ragion pratica, scusate se è poco!). È una ipotesi non necessaria, come disse Laplace a Napoleone spiegandogli il principio di inerzia e il sistema newtoniano. È una stupidaggine, come dico io: in questo senso sono “agnostica”. Quale razionalista ha mai perso tempo a dimostrare l’inesistenza di Dio o – per citare Bertrand Russel – della Teiera orbitante?
Perché la ragione, tra le sue regole – come i principi di transitività, non contraddizione, ecc. – ne ha anche una troppo spesso trascurata: l’economia di pensiero. Le questioni vane, le ipotesi non necessarie, le stupidaggini non si prendono in considerazione. Per la ragione, non esistono.

ATEA
È chiaro che sto sostenendo, in questo modo, un agnosticismo forte. Non l’“ignorabimus!” un po’ timido di certi positivisti, non la sospensione del giudizio di fronte ai problemi metafisici o religiosi. Non penso che ci sia qualcosa di indicibile e di altrimenti accessibile – attraverso la fede, l’esperienza mistica o quant’altro – oltre la ragione. La ragione ha i suoi limiti, certamente, ma al di là della ragione c’è solo déraison, come dicono i francesi: sragione. In sostanza, faccio coincidere agnosticismo razionale e ateismo. Sono pienamente d’accordo con l’aforisma coniato da Aveling, genero di Marx e fervente seguace di Darwin: “ateo è un modo aggressivo per dire agnostico; agnostico è un modo rispettabile per dire ateo”.
Com’è noto, il termine “agnostico” fu coniato da Thomas H. Huxley per fornire a Charles Darwin – appunto – “un modo rispettabile per dire ateo”: un modo che non avesse l’effetto di épater le bourgeois, di alimentare scandali e inutili dispute ideologiche per focalizzare invece l’attenzione sul contenuto scientifico della teoria dell’evoluzione. Del resto nella storia della filosofia ci sono ben pochi filosofi dichiaratamente atei, e la spiegazione è molto semplice: fino a tutto il Seicento, avrebbero fatto “la fine delle castagne”, come ebbe a dire Galileo Galilei. Bisogna arrivare all’Illuminismo – e con esso anche a una completa riforma del sistema penale – per trovare dichiarazioni esplicite di ateismo. Ma come non pensare che autori materialisti e razionalisti – a partire da Epicuro per arrivare a Spinoza e a Kant, per non parlare del “nostro” Darwin – fossero atei? Razionalisti, perciò agnostici, perciò atei.

UN PERCORSO VERSO “L’ETÀ DELLA RAGIONE”
So che molti non condividono questa mia identificazione di agnostico e ateo – spesso per l’errata convinzione che l’ateo argomenti l’inesistenza di Dio, cosa in realtà impensabile per un razionalista. Io a questa identificazione sono affezionata, perché riflette in qualche modo il mio personale percorso verso l’ateismo.
Alcuni sostengono che atei si nasce, ma certo da piccini siamo creduloni, propensi al pensiero magico e tanto paurosi. Da piccini ci intortano, farciscono il nostro ancora debole cervellino con questioni vane, ipotesi non necessarie, stupidaggini. Sicché, anche se atei si nasce, ci tocca poi ridiventarlo. Da piccina io me le bevevo tutte: Dio, Befana, vampiri, fate dei dentini, diavoli e soprattutto marziani (questi ultimi mi facevano una paura tremenda). Ma poi, intorno ai quindici anni, ho raggiunto quella che si dice “l’età della ragione”. Sì, sono diventata in primo luogo razionalista, perciò agnostica (in una prima fase mi limitai a smettere le devozioni senza pensarci più di tanto). Poi una compagna di scuola – di famiglia piuttosto perbenista e bacchettona, perciò un po’ scandalizzata dal mio atteggiamento – mi disse: “ma perché non ammetti di essere atea?”. Io ci pensai un attimo e risposi “ok, sono atea”. E dicendolo mi sentii libera e felice. Il passo dall’agnosticismo all’ateismo, in altre parole, fu breve e facile: giusto una questione terminologica.
Ecco, come promesso vi ho detto la “verità”, sono stata sincera, ma le cose che vi ho detto e raccontato potranno sembrare a qualcuno presuntuose, supponenti, poco rispettose nei confronti dei credenti ai quali ho in qualche modo attribuito un cattivo uso della ragione, se non addirittura la sragione. Con questo raccontino della mia infanzia e adolescenza ho forse rincarato la dose, perché in effetti l’ateismo coincide per me – per la mia storia personale – con il raggiungimento dell’“età della ragione”, cioè dell’età adulta. Questo per me significa molte cose: oltre all’uso sistematico della ragione, significa acquisire la capacità di decidere da soli – cioè non sulla base della eterodirezione rappresentata dai sistemi di premi e castighi – e di assumersi la piena responsabilità del proprio agire; significa diventare autonomi e non contare sistematicamente sull’aiuto altrui; significa venire a patti con l’idea della morte. Su queste cose – continuo a dire la “verità” – trovo in effetti i credenti… un po’ scarsi. Non del tutto adulti. E in questo senso sì, mi sento “superiore” ai credenti, adulta anziché infantile. Vivere da adulti non è questa bellezza, ma qualcuno deve pur farlo…

CREDENTI E NON CREDENTI… SI CAPISCONO?
Posso sbagliarmi, in questa indicazione delle caratteristiche degli atei (agnostici, razionalisti) e dei credenti. Posso sbagliarmi perché, secondo me, atei e credenti si capiscono molto poco.
Citerò in proposito un ultimo autore, Félix Le Dantec, un positivista francese, chimico di professione, autore di un libretto intitolato L’ateismo in cui sostiene, in buona sostanza, che atei e credenti hanno il cervello diversamente conformato e organizzato, e che perciò non si capiscono: al punto da non credere gli uni all’esistenza degli altri. Gli atei pensano che i credenti – quanto meno quelli di intelligenza normale – in realtà non credano (come possono mai andare dietro a tante questioni vane, ipoteso non necessarie, stupidaggini?) ma si adeguino ai dettami delle chiese per ipocrisia, interesse o quieto vivere… I credenti non pensano che gli atei siano davvero tali: sono persone aggressive, bastiancontrari, presuntuosi o amanti della polemica, ma sotto sotto… Questo coincide, in effetti, con la mia esperienza. Molte volte mi è capitato di stentare parecchio a convincere un credente del mio sincero e radicale ateismo. Insistono, ripetono che in qualcosa in fondo devo credere, spesso sono così esasperanti in questo non ammettere un pensiero diverso dal loro che finisco per sbottare: “ma insomma, credi all’aldilà, nel Dio uno e trino, alla resurrezione dei morti, agli angeli e ai diavoli… e fai fatica a credere che io sia veramente atea?!”.

Maria Turchetto