L’allungamento dei tempi per la dichiarazione dei redditi ha anche ampliato il marketing per raccogliere le “destinazioni”.
Niente di strano, anche ArciAtea APS chiede il 5×1000, ma alcune associazioni utilizzano immagini e testi scioccanti per il loro fundraising, quali l’immagine cruda di un sofferente bimbo denutrito e il commento che lui (proprio lui) morirà entro la prossima settimana, se tu (proprio tu) non invierai a loro (proprio a loro) una donazione.

Le scienze cognitive applicate al marketing ci dicono che siamo più attratti da emozioni negative e da immagini di bimbi/cuccioli che evocano protezione.
L’uso delle immagini emozionanti è necessario (oltre che inevitabile) ma, analogamente alla distinzione tra erotismo e pornografia, bisogna saper distinguere:
– da un lato c’è l’immagine ricca di informazioni e di sensazioni che stimola chi la guarda (il “ricevente“) alla riflessione sul contesto e all’elaborazione critica;
– dall’altro c’è l’immagine conformista e passivizzante, destinata solo a un consumo piatto e immediato, con cui l’autore del messaggio (l’”emittente”) usa strumentalmente l’emozione istantanea del ricevente per realizzare il suo scopo.

Queste immagini, spesso, non sono rispettose della dignità del soggetto rappresentato (usato, appunto, come strumento); la comunicazione non aggiunge informazioni sul contesto (sulle cause) ma si concentra su una sofferenza (un effetto), alimentando (o non contrastando) i pregiudizi (anche quelli benevoli e residuali degli “italiani brava gente”) che, per esempio, giustificano di fatto il colonialismo rappresentando altri Paesi come bisognosi di aiuto perché “incapaci” di fare da sé (“faccetta nera… aspetta e spera”).

Tra l’altro, l’escalation della crudezza pornografica delle immagini non aumenta il totale dei donatori – perché questo mercato è saturo – ma serve a indirizzare i già predisposti verso una destinazione a scapito delle altre concorrenti.
Queste associazioni non profit si concentrano sull’efficacia della raccolta fondi, senza preoccuparsi dei “danni collaterali”.

Ci spingono a tamponare il disagio scatenato dall’immagine scioccante con un gesto caritatevole che, non essendo strutturalmente risolutivo, ripropone rapidamente lo stesso disagio, finché la ripetizione non lo anestetizza.
Il disagio viene stabilizzato in un rito (“mi sento a posto perché faccio regolarmente la carità”), accantonato (“non posso fare tutto io”), deformato (“però dovrebbero darsi una mossa anche loro”), rovesciato (“anche noi siamo bisognosi”), negato (“è tutto un magna-magna”), ecc. ecc.

Queste associazioni usano la logica della carità – gerarchica, strumentale, paternalista, consolatoria – apparentemente più convincente (“i bimbi muoiono ora”) rispetto a una logica solidaristica, rispetto alla (dolorosa) consapevolezza che spesso non esistono soluzioni concrete a breve termine, ma solo la possibilità di fare scelte politiche per evitare che domani ne soffrano e muoiano ancora di più.
Dovremmo invece privilegiare un interscambio finalizzato alla diffusione della solidale “canna da pesca” (l’investimento a lungo termine) – e non del caritatevole “pesce” (il consumo immediato) – ogni volta che la limitatezza delle risorse ci impone una scelta.

Con l’uso di immagini porno-caritatevoli, queste associazioni “educano” i donatori a una semplice e impolitica consolazione, diventano autoreferenziali, trasformano il mezzo del fundraising in un fine, spingono l’intero settore a impiegare sempre più risorse in pubblicità a scapito delle associazioni concorrenti e dello stesso utilizzo caritatevole che dichiarano di voler fare.