come si costruisce l’agenda e si induce a cosa (non) pensare
con Giorgia Serughetti (filosofa politica UniMiB)
e Anna Dichiarante (giornalista L’Espresso)
ha coordinato Federica Cattaneo
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Anna Dichiarante è giornalista professionista, ha lavorato a Repubblica dove si è occupata di cronaca e di esteri; ha realizzato podcast e molto altro; dal 2022 lavora a L’Espresso. I temi di scrittura più vicini alla sua formazione sono giustizia, mafia, lavoro, antifascismo e libertà di stampa.
Giorgia Serughetti insegna Filosofia politica presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca; editorialista di Domani; ha scritto studi e saggi su questioni di genere e teoria politica.
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[dall’intro di Federica Cattaneo (pdf)]
Stasera faremo riferimento ai referendum su cui si voterà il prossimo 8 e 9 giugno, ma il centro della nostra discussione non sarà il contenuto dei cinque referendum (se ci saranno domande dai presenti o da chi ci segue da remoto ovviamente potremo dire qualcosa anche su questo). Lo scopo della serata è discutere sui meccanismi della comunicazione che vengono chiamati agenda building e agenda setting. Provo a richiamare sinteticamente questi concetti.
L’agenda politica è l’elenco dei temi al centro dell’attenzione delle élite dirigenti e dei cittadini. La nostra attenzione è inevitabilmente limitata e viene spesso modellata attraverso un processo di agenda building, cioè di costruzione dell’agenda delle questioni politiche e sociali a cui prestiamo maggiore attenzione, ai temi di cui maggiormente si discute.
Ciascuno di noi può contribuire a definire l’agenda ma, ovviamente, è avvantaggiato chi ha più potere e chi controlla i mezzi di informazione. L’agenda setting è il modo in cui i media decidono quali sono temi e le notizie da trattare o da NON trattare; in altri termini, prima ancora di discutere nel merito di una questione (di esprimere una valutazione positiva o negativa sul tema) si “impone” di parlare soprattutto di alcuni argomenti e non di altri.
È chiaro che la scelta dei temi non dipende solo dalla volontà del proprietario dei media; è l’egemonia culturale che orienta una fase storica (quindi anche l’opinione quotidiana dei cittadini) che rende un fatto più o meno “notiziabile” o da trascurare perché considerato di scarso interesse, indipendentemente (o quasi) dall’orientamento politico del giornalista.
Inoltre, la diffusione dei media informatici e il postmodernismo accentuano ulteriormente la “concentrazione” dell’attenzione su alcuni temi tramite flame, fiammate spesso effimere e superficiali.
Avrete notato che il governo e le forze politiche che non concordano con i contenuti sostenuti tramite i quesiti referendari, hanno fatto di tutto per oscurare i referendum: scegliendo una data per il voto che non favorisce l’affluenza alle urne; sminuendo l’importanza dei temi trattati; insistendo sulla previsione che votare è inutile perché comunque non si raggiungerà il quorum; e soprattutto riducendo al minimo la quantità e la qualità dei dibattiti a favore o contro i contenuti dei quesiti referendari.
In passato – per il referendum sul divorzio del 1974 e per quello sull’aborto del 1981 – si discuteva appassionatamente tra favorevoli e contrari. Il quesito era al centro dell’agenda politica e la partecipazione era altissima.
Oggi invece chi è contro l’abrogazione non si affida tanto a convincere politicamente gli elettori a votare NO, ma a ottenere il fallimento dell’iniziativa referendaria tramite il mancato raggiungimento del quorum, facendo in modo che i temi referendari non rientrino (o rientrino il meno possibile) nell’agenda politica; cioè costruendo un’agenda (agenda building) che metta al centro dell’attenzione altri temi.
Viceversa, nel caso dei quesiti promossi dalla Cgil, lo scopo è contrastare gli infortuni, la precarietà, i licenziamenti illegittimi garantendo un equo compenso, ma lo scopo è anche, più in generale, rimettere il lavoro al centro dell’agenda politica. L’obiettivo “collaterale” della campagna referendaria, infatti, è riaffermare la centralità del lavoro (del lavoro attuale, non di quello degli anni ‘60, a volte mitizzato con nostalgia).
Storicamente le idee delle sinistre si sono fondate sulla centralità del lavoro (come è scritto anche nella nostra Costituzione) ma dopo il lungo periodo di sviluppo economico e di riduzione delle disuguaglianze dei secondo dopoguerra (i magnifici trent’anni, 1945-1975) l’egemonia del pensiero neoliberista (con Thatcher e Reagan negli anni ‘80 e con la globalizzazione degli anni ‘90) ha aumentato le disuguaglianze e ha oscurato il lavoro, facendolo sparire dall’agenda politica.
I “magnifici trent’anni” erano basati sul paradigma dell’equilibrio tra equità e efficienza; poi si è affermato il paradigma neoliberista per cui l’equità impedirebbe l’efficienza, e non ci sarebbero alternative a una competizione tra individui indipendenti e isolati.
Ormai anche questo paradigma neoliberista è in crisi, perché (come recita un titolo di Serughetti) La società esiste, nonostante le nostre difficoltà nel costruire le alternative.
Qui si potrebbe aprire una riflessione più generale sulla crisi della politica (mi riferisco alla politica sistemica, non alla politichetta delle schermaglie politiciste da talk show) e una riflessione sulla capacità delle sinistre di proporre una visione del mondo generale e coerente, non un pensiero frammentato per monotematiche (single issue); cioè sulla necessità di una visione del mondo che esprima una prospettiva e una speranza per un futuro migliore.
A me sembra che le sinistre si concentrino molto sul giudizio da dare per ogni questione e che, invece, sottovalutino la definizione dell’agenda (l’agenda building e l’agenda setting). E viceversa che le destre siano molto più capaci di gestire la comunicazione, dettando la loro agenda, non solo perché hanno un maggiore controllo dei media.
Detto in modo molto sintetico. L’agenda delle destre ci fa discutere di sicurezza e immigrazione, temi su cui ovviamente non ci mancano gli argomenti per dimostrare che l’Italia è una delle nazioni più sicure al mondo, e che gli immigrati sono richiesti dagli stessi padroncini leghisti, purché senza diritti per sfruttarli meglio. Però sono temi che evocano anche paure, in parte comprensibili, ma facili da strumentalizzare.
Sarebbe diverso se riuscissimo, con logica intersezionale, a mettere al centro dell’agenda politica il lavoro, la sanità, i diritti e le altre questioni sociali, cioè i temi su cui si possono esprimere meglio le nostre idee di uguaglianza e giustizia sociale.
Concludo. Tornando ai referendum, dobbiamo impegnarci al massimo per raggiungere il quorum: obiettivo difficile ma non impossibile. Dobbiamo anche essere consapevoli che la campagna referendaria è una occasione per dettare noi l’agenda, per riaffermare la centralità del lavoro, il lavoro su cui dovrebbe fondarsi la nostra Repubblica.
…
L’argomento più usato contro i 5 referendum è che tanto non si raggiungerà il quorum, quindi i referendum sono inutili, anzi dannosi perché votati alla sconfitta.
La mia convinzione è che dobbiamo impegnarci al massimo per raggiungere il quorum però, anche se restassimo sotto il 50%, questo sarebbe un risultato certamente parziale, sub-ottimale, ma non una sconfitta, perché comunque l’iniziativa referendaria ha un po’ condizionato l’agenda politica.
Il postmodernismo schiaccia passato e futuro in un eterno presente; per i postmodernisti, ogni volta, o si vince tutto o si perde tutto. Ma la politica – intendo la polity, la politica sistemica, quella con la P maiuscola – è anche investimento per il futuro; è anche accumulo di forze per sostenere una rivolta sociale, un accumulo di forze intellettuali, sentimentali, materiali, organizzative.
Né vale l’inverso: la Politica (con la maiuscola) non si limita all’etica dei principi ma li declina con l’etica della responsabilità; la Politica indica una speranza concreta, idee e azioni con cui accumulare forze per un processo di cambiamento.
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